Andrea Meregalli e i confini (che svaniscono) tra artista, opera e fruitori: è “You are making art”

Venezia nei mesi della Biennale ospita anche una mostra ideata dalla piattaforma Taex sulla grande "riforma" dell'arte digitale.
L'installazione You are making art di Andrea Meregalli
L’installazione You are making art di Andrea Meregalli

«Non c’è, quel confine. Se il senso del risultato artistico è il “prodotto”. C’è solo se si pensa che il risultato artistico stia in chi pensa la dinamica e non in chi la esegue». Andrea Meregalli risponde così quando gli si chiede quali siano i confini tra artista, opera d’arte e pubblico. Ed è la domanda che il monzese ha portato a Venezia, in una mostra parallela alla Biennale d’arte, organizzata da Taex, piattaforma interdisciplinare che si occupa di arti digitali.

Il progetto “Scoletta dell’arte: Digital reform” allestito a Santa Croce è curato da Antonio Geusa, critico e conferenziere tra i più noti esperti delle nuove forme artistiche declinate con la tecnologia. È stato lui a invitare Meregalli – che solo poche settimane fa ha portato un progetto di arti digitali alla galleria Villa contemporanea di Monza – a partecipare alla collettiva aperta la scorsa settimana e aperta, come la Biennale, fino a metà settembre. Lì, accanto a opere di Theodore Gericault, Abraham Bloemaert, George Rouault, Kazimir Malevich (da una collezione privata) i lavori del monzese, di Funa Ye, Accurat, Francesco d’Isa, Maotik e Shu Lea Cheang.

L’installazione di Meregalli apre il percorso espositivo: è You are making art, “che mette lo spettatore nel ruolo sia dell’artista che dell’opera d’arte, grazie all’aiuto di una piattaforma di intelligenza artificiale programmata per produrre costantemente nuove immagini durante i sei mesi di mostra. Le radici dell’opera affondano nella metà degli anni ’60 del secolo scorso, quando gli artisti iniziarono a creare situazioni performative per estremizzare il processo di dematerializzazione dell’opera d’arte”.

Dell’opera d’arte, del rapporto tra pubblico e arte e a triangolo con l’artista stesso, aggiunge Meregalli, che ha programmato le macchine «con le immagini che io ho creato, fotografie e disegni e non solo, che si mischiano in continuazione e si ricreano con la presenza di una persona ripresa davanti all’installazione: è un’opera che si concentra sul concetto di interazione, quindi non tanto sul prodotto, quanto sul processo».  

«Così non abbiamo spettatori, ma spettautori dell’opera d’arte: ed è risultato del processo che parte da me con la programmazione, passa dalla macchina e si concretizza però soltanto con la presenza di qualcuno che interagisce. Solo allora si è di fronte all’opera d’arte e se ne fa parte. E facendo un passo più in là, al contrario, nel momento in cui non c’è nessuno l’opera d’arte non esiste».

Un passo digitale diverso, anzi opposto, alla bolla degli Nft dell’arte: i certificati in blockchain che hanno caratterizzato una fase dei mercati negli ultimi anni, un’esplosione che ha portato a vendere più o meno qualsiasi pastrocchio purché con Nft. «Un’immensa speculazione, a mio avviso – osserva Meregalli -e quanto di più lontano dal concetto di unicità nell’arte, piuttosto l’applicazione di un sistema “capitalistico”, finanziario, che corrispondeva solo alla volontà di dire “è mio”». Ma è al di fuori di queste logiche che si muove la nuova frontiera dell’arte digitale, quella che prova a documentare la mostra di Venezia con uno sguardo peraltro internazionale, «perché, lo dice Geusa e lo penso anch’io, siamo di fronte a una rivoluzione più forte di quella della fotografia, pari a quella di internet piuttosto. E non sottrae nulla alle altre forme artistiche: aggiunge, piuttosto e anzi dà loro più valore».