Arte, Zanchetta resta al museo di Lissone: «Il Mac può avere respiro internazionale»

Passato, presente e futuro del Museo d’arte contemporanea di Lissone in un’intervista al direttore confermato, Alberto Zanchetta. Che dice: «Il Mac può avere un respiro internazionale».
Nanda Vigo, Deep Space, 2015
Nanda Vigo, Deep Space, 2015 Emilio Tremolada

Dieci, cento, mille mostre. Con una nuova idea di museo, dove l’arte diventa organica: capace di permeare tutta la struttura, che va riletta, dice il direttore. Sistematicamente, ogni volta. Se qualcosa è successo per l’arte contemporanea, in Brianza, va cercato a Lissone. Dove Alberto Zanchetta ha trasformato attese, prospettive, visioni. Ha altri due anni davanti, con un rinnovo che lo porta oltre la seconda edizione del premio d’arte che conta di ritrovare la sua dimensione internazionale. Ma per guardare avanti bisogna partire da ieri. E ieri è un museo che è stato capace di raccontarsi da capo.

Quindi, perché Lissone?
La struttura ha una locazione conveniente, vicino a Milano, servita dai treni, ha un pubblico e si può giocare di sponda con gli altri musei, soprattutto milanesi. Ora so come agire e intervenire. E poi ha una dimensione che fa per me: un museo ottimo, come strutture, come collezione.

I risultati?
Più dall’esterno che dal territorio: è venuto nei giorni scorsi il responsabile della biennale di Atene, ha riconosciuto che il lavoro che è stato fatto è di valore. Ora abbiamo avuto un primo anno incentrato sui giovani, il secondo sulla generazione di mezzo, il terzo sugli storici: l’obiettivo è renderci internazionali.

Finora direbbe un lavoro riconosciuto dal mondo dell’arte?
Sì. Il museo di Lissone si conosceva come spazio tarato sul moderno. Ora invece si concentra soprattutto sul contemporaneo, con trenta, quaranta progetti all’anno, uno sforzo credo incredibile anche per i grandi musei: ma è uno sforzo che permette di avere recensioni. Viene pubblico, vengono i giovani, vengono gli storici: non bisogna più convincerli, sono soddisfatti di quello che è successo. Il Mac adesso ha un curriculum, non devo più dimostrare nulla.

Trenta progetti all’anno? Come si fanno?
Ci sono scienziati che raccontano come determinati insetti non potrebbero librarsi in volo, perché le ali non sono proporzionate, eppure lo fanno : è la stessa cosa. Si sfidano le leggi della natura. Il motore è crederci e far vedere che ti piace, che si può trasmettere passione. Perché al contrario facendo mostre che devono per forza soddisfare interessi o del territorio o d’altro genere, oppure con le mostre pacchetto che vanno di moda e in cui non c’è ricerca, alla fine sono tutti comunque insoddisfatti. Perché non è un museo, non sono mostre, in quel caso: sono uno showroom. Qua si cerca di fare ricerca, di fare vedere cose diverse. Nei prossimi anni più progetti per design e architettura, voglio far vedere autori famosi ma nei percorsi meno storicizzati: i radicali degli anni Sessanta cosa hanno fatto poi?

E cos’altro aspettarsi?
Abbiamo avuto il consolidamento che ci permetterà di sperimentare anche di più, far emergere la curatela d’arte. Cercare di giocare, con progetti in cui una mostra continua a evolvere: con opere spostate, con allestimenti che cambiano di settimana in settimana.

A parte i soldi, cosa farebbe fare al Mac il salto definitivo?
Eh no, è proprio una questione di soldi. Imprenditori che investono, che si appassionano, che vogliano affiancarmi. Editori che vogliano documentare la ricerca che stiamo facendo. Cos’altro? L’impatto della comunicazione. Ormai esisti se comunichi in modo massivo. Cosa che non stiamo facendo. Siamo conosciuti, ma non popolari.

Ripagati abbastanza del lavoro fatto?
No. Abbiamo fatto tanto, abbiamo incrementato tanto, ma il museo potrebbe ambire a molta più frequenza, anche variegata. Forse avrei sperato di più dalle riviste non solo di settore, ma anche da quotidiani nazionali. Sono soddisfatto, sia chiaro: ma per la mole di lavoro che non si vede forse dovremmo riscuotere di più.

Quindi in credito col pubblico…
Forse sì. Viene gente da tutta italia. Anche dall’estero. Ma vorrei ci fosse un passaparola maggiore da chi viene e si complimenta.

Relazioni col territorio, soprattutto le gallerie?
Ho sempre fatto il critico militante. Nasco con il contatto con i privati. Gli altri musei, come i civici di Monza e il Must di Vimercate, non sono molto adatti a fare rete con noi, per la loro identità. Ed è anche per questo che non ho visto conflitti di interesse con altre realtà che fanno attività con nuovi artisti, spesso in perdita per lo sforzo intellettuale che ci mettono. Che una struttura pubblica riconosca loro il lavoro che stanno facendo è giusto. Tengo però sotto controllo il conflitto possibile tra pubblico e privato: il Mac non deve essere fonte di interesse o speculazione. Ma d’altra parte non può essere il museo un’astronave nella Brianza.

C’è abbastanza arte contemporanea in Brianza?
È molto frenata, potrebbe offrire tanto di più, anche a Monza, sebbene negli ultimi anni si sia un po’ riscattata. I privati vogliono mettersi in correlazione con i Comuni, ma spesso c’è diffidenza o sciatteria da parte degli enti pubblici. Vorrei che la Brianza fosse più energica e produttiva, sul fare cultura. Va detto che in tutta Italia non ci sono regioni che brillano. In Veneto, da dove arrivo, città come Vicenza, Verona e Padova non offrono nulla. E sono cittadine importanti. L’autonomia che hanno in Trentino e Sardegna offre occasioni importanti, ma sono comunque periferiche. È qui che dovrebbe essere lo snodo, ma non è così. E siccome non si capisce qual è il problema, non c’è nemmeno una soluzione.

Il museo di questi anni è stato non solo opere d’arte, ma un progetto totale che ha riguardato anche l’ambiente, le strutture, le scale, le vetrine, gli allestimenti, persino il dietro le quinte dell’arte è diventata arte. Arte organica, verrebbe da dire. È così?
Ogni mostra è una persona, ha un nome proprio. Le mostre che sono transitate sono ognuna diversa dall’altra. E mi piace fare vedere il lavoro che sta dietro una mostra, la sua progettazione. Non si tratta di portare opere e metterle giù. Ma anche quali opere e dove, per esempio, e perché. Anche per valorizzare la stessa struttura, che tutti riconoscono essere bellissima. Bisogna tornare a fare vedere tutto.

Per esempio?
Inserendo anche oggetti che non fanno parte dalla mostra ma che servono a innescare qualcosa che non sia convenzionale. Fornire al pubblico qualcosa che non si aspetti. Pur restando scientificamente rigorosi.

Una mostra fra tutte quelle fatte?
Non posso scontentare nessuno. Prediligo però quelle defilate. Quelle di risulta. Magari quelle fatte anche solo con una bacheca come l’“Eterno compresso”. Sarebbe bello arrivare a fare venti piccole mostre in una volta. Oppure amo quelle sugli archivi dell’arte, che sono tantissimi e che potrebbero costruire tante mostre.

E la scena artistica del territorio?
Ehm. Mi sembra di conoscerla poco. Ma forse c’è poco. Designer sì. Ma artisti? C’è l’accademia di Brera, ma qui non si capisce. Forse vengono calamitati da Milano. Ma non c’è nemmeno spirito di aggregazione. Non ci sono spazi , come accade altrove, di artisti per gli artisti. O non ne sono a conoscenza o non ci sono. Insomma, un ambito lacunoso. Perdurano ancora alcuni artisti mid career. Ma i nuovi? Dopo Bonalumi, dopo Piemonti e altri ? Domani su cosa lo basiamo il museo? Se il territorio non offre siamo obbligati a cercare altrove.