Giornata della Memoria: la monzese Rosa Beretta, che non disse mai dei quattro lager in cui era stata

I figli hanno sempre saputo di quel numero tatuato sul braccio della madre. Ma la verità della monzese Rosa Beretta è emersa solo dopo la sua morte, nel 1989: era stata deportata in quattro lager, prima di riuscire a tornare a casa nel 1945.
Monza Augusta Rizzatti figlia di Rosa Beretta
Monza Augusta Rizzatti figlia di Rosa Beretta Fabrizio Radaelli

A indicare che la madre fosse stata deportata solo quel numero sul braccio. I figli Augusta e Marco, fino a che lei è rimasta in vita, non hanno mai saputo nulla con precisione: che avesse vissuto l’orrore di quattro campi di concentramento, Rosa Beretta non l’ha mai raccontato a nessuno.

Lo sapeva solo chi avrebbe poi sposato agli inizi degli anni Cinquanta. Deportato come lei in Germania, ma in un campo di lavoro, da Misburg, poco lontano da Hannover, Mario Rizzatti riesce a scrivere lettere alla famiglia, e a inviare anche del denaro.
Opposta la sorte che tocca a Rosa, strappata a soli vent’anni dalle stanze di casa, in quella che allora era via Cascina Marelli: succede nella notte del 12 marzo 1944. Per un totale di 16 mesi e 19 giorni di prigionia, Beretta viene trascinata in un caleidoscopio dell’orrore che la vede passare per Mauthausen, Auschwitz, Ravensbrück e Buchenwald, prima riuscire a tornare a Monza nel luglio del 1945.

Giornata della Memoria: la monzese Rosa Beretta, che non disse mai dei quattro lager in cui era stata
Monza Augusta Rizzatti figlia di Rosa Beretta

Dopo un periodo al cotonificio Cederna, Rosa Beretta inizia a lavorare come operaia ribattitrice alla Breda – ed è lì che conosce Mario.
Viene accusata di partecipare agli scioperi di quei mesi: portata a San Vittore e poi al carcere di Bergamo, l’8 aprile del 1944 arriva a Mauthausen. I suoi spostamenti sono stati ricostruiti da alcuni vecchi documenti a cura del Comité International de la Croix-Rouge, che la figlia Augusta ha ritrovato solo nel momento in cui, nel 1989, alla sua morte, ha fatto ordine tra le cose della madre.

Sono comparsi così i libretti del lavoro, le tessere di appartenenza al Comitato provinciale milanese reduci della prigionia e le richieste alla Presidenza del consiglio dei ministri – nello specifico alla “Commissione per il riconoscimento delle provvidenza a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari” – dell’indennità che riuscirà a ottenere solo sul finire della sua vita, nel 1982.

«Per quanto lei non ne volesse parlare, qualcosa abbiamo sempre intuito. Ma lo scoprire, il conoscere poco alla volta sono stati ben altra cosa – spiega Augusta – Mia madre nei diversi campi deve aver sempre lavorato, sottoposta a sevizie inimmaginabili».

Nell’estate del 1945 riescono a tornare a casa con lei alcune altre colleghe della Breda. Dalla Germania torna anche Mario: nel 1954 si sposano e in poco tempo mettono su famiglia, cercando di affossare nella sicurezza della quotidianità l’orrore dei mesi in Germania.