La passione monta prepotente in ragione dell’atavica povertà pur mo’ messa alle spalle. Stregato dall’epopea dei primi “giganti della strada”, Pietro Molteni sogna ad occhi aperti imprese che destano la riprovazione dei bennati arcoresi: pensasse ad ammazzare a regola d’arte il maiale, acquistato e ingrassato con privazioni feroci per tacitare l’orrenda fame di noi, disgraziati di cascina. Sballato il ricambio a forza di sbobbe sempre più diluite, il povero animale non ha più la forza di uscire dallo stabiello, costruito con sadica sollecitudine dal vir di casa. La mattanza riesce una festa a ragione dell’esperienza e del mestiere del mazzolare ingaggiato. Pietro è uno dei più popolari macelar sulla piazza. I suoi cigut, i suoi salom, le sue murtadéla e le sue bògie hanno una qualità che tacita pure i critici più severi. Insaccati con coscienza vaniglia e cappelli da prete, Molteni ha il coraggio – una volta scesa la sera – di leggere ed esaltarsi delle imprese di Brunero, Girardengo e Binda.
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Per raggiungere i casolari più fuori mano, Molteni inforca la bicicletta e cerca di emulare – in piccolo – tanto famosi assi della pedivella. Pedalando sui bricchi della Brianza, Molteni ha la coscienza di essere –nella miseria generale – un privilegiato. Come gli affari stanno girando nel verso giusto, Pietro smette di brigare con marnett e buröla e si mette in proprio. L’intuizione è subito vincente. Invece di ammazzare il purcell per riempire la dispensa di famiglie e corti, Molteni produce in piccola serie prelibatezze alimentari che soddisfano le esigenze più pretenziose dei arcoresi più sgamati. Il salumificio del sciur Pietro si fa strada, nel Monzese, per materie prime e qualità di fondo: roba fina, concedono le regiùre più esigenti. Ingrandendo e razionalizzando lo stabilimento della Cà Bianca, Molteni si fa un nome – e che nome – per tutto il circondario.
Possidente per meriti acquisiti, il Patriarca ha solamente un cruccio: di non aver ancora corrisposto alla promessa della lontana gioventù. Appesa da un pezzo la bicicletta alla rastrelliera, Pietro segue da lontano la carriera del paesano Fiorenzo Crippa, gregario di Coppi nella Bianchi di Giovanni Tragella. Vinta a sorpresa la Coppa Bernocchi nel ’50, Crippa spende tutte le sue cartucce agonistiche per assecondare al meglio le imprese di Faustin. Devoto fino alla mortificazione al suo capitano, Fiorenzo non ha lo charme sufficiente per esaltare davvero Molteni. Segue con cinismo l’avventura di Giovanni Borghi, il patron dell’Ignis: l’industriale varesino butta centinaia di milioni per foraggiare lavativi d’incerta levatura e comprimari men che decenti. Molteni frigge per il gran passo. L’agiatezza ormai raggiunta non intacca la passione per i curidur: ma – con un buonsenso marcatamente brianzolo – Molteni ha la coscienza del limite.
Nel ’59 il sciur Pietro si regala il gingillo tanto desiderato, tirato dentro – il dritto – il fratello Renato. L’uomo di punta del neonato Gruppo sportivo è Giorgio Albani, enfant du pays e scafatissimo velocista. Albani corre con la testa, più che con i muscoli. Sopperendo all’inferiorità di cassetta con una raffinatissima tattica di gara, il monzese ha dato spesso la paga ai più celebrati fuoriclasse dell’epoca, in primis Coppi, Bartali e Magni. Spremuto e asciugato da nove anni di battaglie, Albani non ha più la forza del finissour di un tempo. Molteni si accorge subito dell’immanente tramonto del suo condottiero e promette a se stesso: sceso dal sellino, sarà il mio consigliere nel mondo del pedale. La stagione di Albani si apre con il quinto posto della “Tre Valli Varesine” e si chiude con il 54° posto della “Bernocchi”. In mezzo, la zampata della Milano-Sanremo (9°) e del Giro di Lombardia (12°). Il Gruppo sportivo Molteni ha i pregi e i difetti delle squadre lattanti: entusiasmo alle stelle e repentini abbattimenti sono all’ordine del giorno.
Il sciur Pietro non lesina incoraggiamenti più che convincenti (le palanche): ma la gestione spicciola lascia molto a desiderare. In effetti, le capacità di coordinamento sono limitate all’essenziale. Per creare dal nulla l’ammiraglia della Casa, Molteni sega in due la carrozzeria della sua Lancia per sistemare ruote di scorta, tubolari e qualche telaio di scorta. Siamo al grado zero del professionismo: ma la grinta e la combattività del Patriarca tacita sul nascere sorrisini di compassione e battute salaci. Tornato a Canossa dopo l’esperienza con la Philco come direttore sportivo, Albani imposta con maniacale precisione la formazione per l’anno 1964. Molteni è stato addirittura brutale nel parlare: basta perdere, basta figuracce, basta stranguglioni. Per cui: carta bianca a Giorgio e ingaggi proporzionati per sfondare davvero nel ciclismo. La prima infornata di corridori reclutati da Albani assicura un tasso tecnico mai visto ad Arcore: Pierino Baffi, Aldo Beraldo, Renato Bongiorni, Guido De Rosso, Giacomo Fornoni, Antonio Manca, Guido Neri e Giordano Talamona. In più, due neo-professionisti di grandissime speranze: il bresciano Michele Dancelli e il cassanese Gianni Motta.
Pietro Molteni si sfrega le mani soddisfatto: la campagna acquisti è stata all’altezza della voglia di primeggiare. Da lì in poi, il Gs Molteni sarà il mattatore assoluto dell’universo professionistico. Nel corso dell’anno, il biondino vince sensazionale Giro di Lombardia staccando tutti e arrivando in solitudine a Como; Michelino Dancelli conquista di prepotenza il Giro d’Abruzzo e il Gp Industria e Commercio di Prato. Albani ha le conoscenze tecniche e la statura umana per governare al meglio i galletti del pollaio Molteni. Per elevare la qualità della squadra blu-camoscio, nel ‘66 il diesse assolda i tedeschi Rudy e Willy Altig, lo svizzero Renè Binggeli e l’olandese Albertus Geldermans. Poulain di Ernesto Colnago, allora capo meccanico della Molteni, Motta trionfa nel Giro d’Italia distillando numeri di altissima scuola, lasciando il secondo classificato – Italo Zilioli – a 3’57”. Al Nürburgring, Altig – prototipo futuribile di un ciclismo fisico e prepotente – conquista la maglia iridata battendo i francesi Poulidor e Anquetil: per la prima volta nella storia, un portacolori della Molteni conquista il titolo mondiale. Il sciur Pietro si soffia il naso di nascosto nel fazzoletto.
Gli affari fanno a gonfie vele. La Molteni primeggia per volumi di commercio e folgoranti vittorie dei suoi prodi. A guastare tanto insistito giulebbe c’è la stregatissima Milano-Sanremo: da 17 anni, la gara che inaugura la stagione ciclistica è appannaggio dei corridori stranieri. L’impresa di Loretto Petrucci – datata 1953 – affonda ormai nella caliginosa epopea del mito. Quanto, giovedì 19 marzo 1970, Vincenzo Torriani dà il via alla “classicissima di primavera”, nessuno dei soloni presenti alla partenza degna uno sguardo agli italiani più in forma: piazzati forse, protagonisti mai, commentano astiosi. La stampa specializzata esalta la condizione di Merckx e Roger De Vlaeminck: i due belgi sono i grandi favoriti per la vittoria finale. Le speranze di spezzare l’egemonia fiamminga sono ridotte al lumicino: i più forti specialisti nostrani saranno annichiliti dal passo di crociera dei battistrada, sentenziano i più realisti degli inviati. L’unico che rimane ottimista è il sciur Pietro: garantito, la corsa la vinciamo noi. La competizione riesce subito briosa, anzi, mossa. Ultimo di sette figli, Michelino Dancelli da Castendolo ha sofferto la miseria più nera nel primo dopoguerra: vincere in bicicletta è la vendetta più dolce per risarcire la vita grama dell’adolescenza. Il Patriarca ha un debole – ricambiato – per Dancelli: forse perché Michele – nel ’64 – ha vinto il Gran Premo Molteni ad Arcore, la kermesse che celebra la grandezza raggiunta dalla famiglia brianzola.
A venti chilometri all’arrivo di via Roma, Dancelli è solo al comando. Sfilandosi dalla marcatura dei più agguerriti pretendenti alla vittoria finale, il bresciano allunga e rilancia. Al volante dell’ammiraglia, Giorgio Albani raccomanda al suo mattissimo pischello: mangia qualcosa e controllo gli zuccheri. All’appello della “Sanremo” mancano il Berta e il Poggio: è qui che si decide la corsa. Nonostante i limitati mezzi dell’epoca, la diretta Tv è assicurata dalla Rai. Leggenda racconta che lo stesso Torriani, approfittando delle gallerie sul percorso non coperte dal segnale internazionale, acceleri di proposito dopo aver agganciato al traino il fuggitivo; leggenda racconta che qualche battuto – che non è italiano – inciprignisce di brutto e vomiti bile. I soldi sono tutto, sentenzierebbe per tacitare la figuraccia rimediata. In realtà, l’unico aggiustamento di sorta è rappresentato dalla voglia di regalare al sciur Pietro una classica fin allora stregata. Il Patriarca piange come un vitello. Per incitare il suo Michelino, il vecchio smonta come una furia la capotte dell’auto e si espone al vento tiepido della Riviera. “Vai Michelin… forsa campiun… se te la fè, te regali il stabliment”. Per l’allentare la tensione, Ernesto Colnago agguanta la bici d’emergenza e prega in silenzio. Dancelli è in riserva da qualche minuto ma Albani, finissimo stratega, lo tranquillizza: tranquillo, non ti prendono più. L’ultimo chilometro è un impasto di bestiale fatica e indicibile emozione. Dopo 13 anni di digiuno, un italiano vince la Milano-Sanremo con indosso la maglia scudettata della Molteni.
Intanto gli anni passano per tutti. Il Patriarca incomincia a perdere i colpi. Il figlio Ambrogio affianca il vecchio nell’impresa e nella gestione del Gruppo sportivo. L’erede designato ha la finezza e il buonsenso di assecondare in tutto il declinante regiù, capace di affettare – nello spaccio aziendale di Peregallo – chili di salame nostrano per la spesa grossa. In realtà, gli operai serviti al bancone dall’arzillo sciur Pietro controllano, per interposta persona, le innocue mattane del principale. Ambrogio ammicca ed esalta la tempra inossidabile del genitore ma – cessata la commedia – maledice di suo la malattia che si sta portando via il genitore. Il pinella ragiona in grande. Aduso a trattare fino allo sfinimento con allevatori e grossisti, il giovane Molteni ha le stimmate del predestinato. Ribaltando l’assunto dell’azienda, ferma al proscenio nazionale, Ambrogio spalanca le porte all’internazionalizzazione dell’Alimentare Molteni.
Dopo le glorie minime di Monti & Martini, di Zerboni e di Cattania, Arcore lustra il blasone appannato della Gilera con la vitalità straripante della Molteni. L’Ambrogio ha il senso degli affari. Stringe alleanze impensabili che aprono i mercati della Cina. Centinaia di migliaia di maiali partono dai porti di Shanghai e Tientsin direzione Brianza. Lavora con la consapevolezza di aver un debito da saldare: quello con il pà. Stagno, intuitivo e spregiudicato, Ambrogio lancia in orbita la Molteni come azienda leader in Italia e in Europa. Gli orari sono allucinanti; le arrabbiature tremende; le soddisfazioni trampolino di lancio per altre sfide. Il rampollo della dinastia è cresciuto – ricalcando la passionaccia del papà – a garoni e volate. Trovandosi all’improvviso al centro del mondo piccolo della bicicletta, Ambrogio responsabilizza ancor di più Giorgio Albani (“sei tu la mia motivazione e il mio portafoglio per ingaggiare qualsiasi corridore strappandolo alla concorrenza”) e almanacca – da par suo – rivoluzione copernicana che sconquasserà il mondo stantio del ciclismo.
Studiando e ristudiando la storia della bici, Molteni s’accorge che i cicli delle squadre straordinariamente vincenti – ultima di tempo la Bianchi di Coppi – sono state costruite, nel tempo, premiando i valori morali di atleti italiani. Ma i tempi sono cambiati: a sfavore dei professionisti del nostro Paese. Per allestire una corazzata capace di dettare legge in campo internazionale, ci vogliono altre competenze tecniche, altre cognizioni mediche, altre concezioni strategiche. La scuola italiana si arrabatta alla meno peggio e millanta successi ormai preistorici, ma deve fare i conti con la propria arretratezza – in primis sportiva e culturale. L’Ambrogio stravolge i sacri testi del ciclismo italiano con l’ostinata ricerca e la spasmodica di accaparrare i più forti del marcione: non importa siano belgi, tedeschi, svizzeri o olandesi. Molteni è avanti di una generazione per cultura e talento. Invidie, ripicche in sagra paesana e meschine rivalse non ostacolano l’attacco frontale all’ancien regime del ciclismo.
Nell’inverno del ’70, la storia d’amore tra Eddy Merckx e la Faema è in crisi nera. Sul tavolo ci sono due corse a tappe – il Giro e il Tour – che la multinazionale del caffè pretenderebbe tassative per il fuoriclasse belga. L’Ambrogio e Giorgio Albani usmano l’aria e si mettono subito in pista, anche perché – sulle tracce del reprobo – ambirebbe avere un abboccamento pure Fiorenzo Magni. Trovato il contatto giusto, i due partono in tromba per sbaragliare tutta la concorrenza. Albani si sobbarca massacranti trasferte per appianare le divergenze e limare la bozza di contratto. L’industriale brianzolo accontenta in tutto le richieste di Merckx: dalle regole d’ingaggio ai premi pattuiti passando alla scrittura dei gregari più fedeli. Abbandonato da Motta e la sua corte, l’Ambrogio recluta il più formidabile corridore sulla piazza. “Eddy aveva l’obbligo di fare il Giro d’Italia per evidenti ragioni commerciali – spiega Mario Molteni, figlio del patron più vincente della storia della bicicletta – Poi, massima libertà di disputare o no le classiche del Nord, il Tour de France o Vuelta de España. Merckx non era solito avere ordini prestabili: ma aveva un senso del dovere fortissimo. Era un “padrone” esistente ma generoso. Mio padre mi spiegava: l’Eddy è fatto così. Dopo aver tagliato il traguardo, la maglia vittoriosa era sempre la sua, la maglia della Molteni. In tanti si sono provati a strappare Merckx a mio padre: fatica sprecata. Il loro mix di orgoglio e riconoscenza reciproca ha attraversato sei anni esaltanti e irripetibili”.
Con due squadre separate, coordinate da Albani, la Molteni travolse l’orticello asfittico delle corse in bicicletta imponendo la legge di Merckx. Sorride leggere il contratto tra il campionissimo e l’Ambrogio per le stagioni ’75 e ’76: “Oggetto: contratto di corridore ciclista. Con la presente scrittura privata, il corridore ciclista signor Eddy Merckx si impegna a correre le stagioni ciclistiche 1975 e 1976 per il Gruppo sportivo Molteni. Il signor Ambrogio Molteni corrisponde a favore del signor Eddy Merckx la somma di franchi belgi sei milioni per anno fermo restando tutti i punti dell’accordo. 31 dicembre 1974”. Mario sciorina l’accordo con commozione: “Sei righe di testo per sancire l’accordo: niente di più, niente di meno. I due avevano il dono di capirsi al volo. Una stretta di mano virtuale per proseguire l’avventura: come si usava tra gentiluomini, insomma. Oggi, tra notai, procuratori e mediatori, la firma giunge – se arriva – dopo una settimana….”
Merckx o Coppi: preferenze? “Tour del ’71, tappa di Orcieres-Merlette: Eddy viene attacco sulla Côte de Laffrey da Luis Ocaña. Lo spagnolo è scatenato: al traguardo, sono dieci minuti e dispari il ritardo tra la maglia gialla e il belga della Molteni. Eddy accetta il verdetto di giornata ma – in cuor suo – cerca subito di ribaltare una gara apparentemente segnata. L’indomani, Merckx parte come se il traguardo fosse una decina di chilometri di distanza: peccato che ci sono da superare i Pirenei. Con una determinazione più che feroce, Eddy sgretola tutta la concorrenza, nessuno escluso. Al traguardo, Merckx giunge con un’ora e mezza d’anticipo dalla tabella di marcia. Nessuno aveva pensato di avvisare il comitato d’onore e le miss, figurarsi le televisioni al seguito. Il povero De Zan rimedierà servizio in registrata: troppo fulminante l’azione di Merckx per tutti i cronisti accreditati. Ecco, Merckx è stato così: semplicemente imbattibile”.
Concesso: però Coppi aveva avversari di eccezionale spessore: Bartali, Magni, Koblet, Kubler, Bobet… “Come Gimondi, De Vlaeminck, Ocaña e Janssen, per gradire. Per questo – per me – Merckx è e sarà il numero uno in assoluto in tutte classifiche di ogni tempo. Per qualche azzeccagarbugli ci sarebbero parametri oggettivi che relativizzano i criteri assodati nel tempo e nella storia: ma sono bubbole. Con la Molteni, Eddy ha vinto 246 corse conquistando quattro Milano-Sanremo, quattro Liegi-Bastogne-Liegi, tre Tour de France, tre Giri d’Italia, due titoli mondiali e, nel ’72, il record dell’ora. Basta così?”. Mario Molteni argomenta la scelta con l’assennatezza di chi ha ragione da vendere. Quando resta del papà, oggi? “Tantissimo. Mio padre è stato il precursore del ciclismo attuale. Se la squadra Sky domina la scena mondiale è figlia dell’intuizione di mio padre. Pensare alla grande, oggi, è stato possibile dalla scelta pionieristica di un uomo che ha inventato un nuovo approccio al professionismo, valorizzando le forze nascoste del movimento ormai globalizzato”. I tempi, però, sono cambiati. “E’ vero, i tempi sono cambiati. Mio padre doveva pagare sull’unghia ogni singola bici da corsa acquistata; oggi sono i produttori ciclistici a sborsare parecchie migliaia di euro per aver il marchio in evidenza in gara… ”.
L’Ambrogio sarebbe a disagio, adesso. “Credo di no. La Molteni non ha mai speso una lira per reclamizzare i suoi prodotti: bastava una vittoria di Merckx a impennare le vendite della Casa. L’affermazione paga il marchio e viceversa: meglio di così… “. Tentato di riprendere la saga interrotta? “Il marchio Molteni è stato registrato, non si sa mai. Come Salmilano abbiamo sponsorizzato anche la Ciclisti Monzesi. E’ stata un’esperienza sfortunata. Insomma, la maglia blu-camoscio della Molteni resterà un lancinante ricordo… “In Belgio, in Germania e in Gran Bretagna tanti maglifici sfornano ancora, di sfroso, la canottiera della Molteni. Sarebbe una contraffazione bell’nuova, con cause per migliaia di euro vinte in partenza. Ma sono una persona romantica: non importa le patacche in circolazione; sono sfrafelice che tante persone sudino e fatichino con la mia maglia addosso, quella della Molteni”.