Chi è Kobe Bryant? Perché la sua scomparsa ha suscitato un moto di cordoglio e un’emozione planetaria? Ex giocatore dei Los Angeles Lakers, ritirato nel 2016 dopo vent’anni in gialloviola, è morto domenica 26 gennaio in un incidente aereo in California: precipitato con l’elicottero su cui viaggiava con la figlia tredicenne, e erede sul parquet, Gigi e altre otto persone. Da allora un abbraccio collettivo che non si affievolisce: piange la stella Lebron James (che ne raccoglierà l’eredità e ha pronunciato uno struggente discorso nella celebrazione allo Staples Center prima di Lakers-Portland: “Vivrai per sempre fratello”, ha concluso) come migliaia di ragazzi nel mondo.
Perché Bryant non era solo un personaggio, un campione di pallacanestro, l’uomo dei record: era un modo di essere e non per niente ha lasciato la “Mamba Mentality”.
Un personaggio da capire e da spiegare, soprattutto ai più giovani. Lo ha fatto Francesco Poroli, illustratore milanese e tra gli autori che meglio si sono affermati negli ultimi anni (Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, New York Times Magazine): nel 2017 ha preso colori e parole e ha pubblicato “Like Kobe – Il Mamba spiegato ai miei figli”.
Qui spiega il perché.
“Esistono momenti nella storia – quella con la “s” maiuscola – che restano impressi nella memoria collettiva. Per quelli della mia generazione, e non solo, è facile tornare con i ricordi all’11 settembre 2001. Dov’eri quando caddero le Torri Gemelli? Cosa stavi facendo? Ognuno di noi ha la sua risposta, ognuno di noi conserva il ricordo di se stesso e del mondo intorno a lui, in quel preciso istante. Un giorno lo chiesero a Kobe Bryant.
“Kobe, dov’eri quando caddero le torri, cosa stavi facendo?
Ero in palestra, stavo finendo l’allenamento”.
A New York erano le 8 e mezzo del mattino, e nel primo pomeriggio – intorno alle 2 e mezzo – io ero a Milano in una redazione a lavorare per una rivista che non esiste più. Lui, quasi mio coetaneo, in palestra a finire un allenamento.
Tutto bene? Quasi. Perché era l’11 settembre e il campionato NBA non sarebbe iniziato prima di due mesi, il signore in questione era fresco di anello NBA, nonché uno dei più forti giocatori al mondo e – particolare non trascurabile – si allenava in quel di Los Angeles, dove l’orologio segnava le 5 e mezzo del mattino, grossomodo.
Ecco, quando mi chiedono perché io ami Kobe o perché qualche anno fa ho scritto e illustrato un libro su di lui, con la pretesa di spiegarlo ai miei figli e ai ragazzi tutti, la risposta è tutta in questo aneddoto.
Perché per parlare ai ragazzi servono gli esempi, non bastano le parole. E quale esempio migliore di uno come lui se vuoi raccontare cosa significhi etica professionale o cosa siano l’ossessione, l’impegno, la resilienza?
D’altro canto lo diceva anche Kobe, parlando di se stesso come genitore: “As a parent you can’t just talk the talk, you’ve got to walk the walk”.
Insomma, servono gli esempi e non solo le parole.