Monza, in ricordo di Aldo JuretichIl testimone diretto di Goli Otok

A una anno dalla sua morte, avvenuta il 5 novembre dell'anno scorso, Aldo Juretich cittadino monzese nato a Fiume negli anni '20 sarà ricordato il 24 e 25 novembre al teatro Binario 7 con la lettura scenica “Goli Otok". Umberto De Pace ci racconta chi è stato.
Monza, in ricordo di Aldo JuretichIl testimone diretto di Goli Otok

A una anno dalla sua morte, avvenuta il 5 novembre dell’anno scorso, Aldo Juretich cittadino monzese nato a Fiume negli anni ’20 sarà ricordato il 24 e 25 novembre al teatro Binario 7 con la lettura scenica “Goli Otok. Isola della libertà”, nell’ambito di un progetto curato e interpretato da Elio De Capitani e Renato Sarti.
Ma chi era Aldo Juretich? Sul finire degli anni ’40 Aldo, giovane studente di medicina a Zagabria, membro della cellula comunista universitaria, tenta insieme al giornalista Spartaco Serpi di organizzare altri giovani comunisti dissidenti dal partito ufficiale al potere. Sono gli anni della rottura tra il Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) e l’ufficio di informazione dei partiti comunisti e laburisti (Cominform da Comunist Information Bureau) con sede a Belgrado, creato appositamente nel 1947 per “disciplinare” il PCJ. Il nuovo stato socialista jugoslavo, nato dalla straordinaria resistenza partigiana contro il nazifascismo, non accetta il predominio e il controllo imposto dalla Unione Sovietica staliniana. Nel 1948 si consuma la rottura fra Tito e Stalin e subito dopo parte in Jugoslavia la caccia al “cominformista”, cioè a tutti quei comunisti che scelgono di stare con l’Unione Sovietica di Stalin.
Fra di essi molti i comunisti italiani e con loro quelli monfalconesi che in duemila, nei primi mesi del 1947, abbandonarono i cantieri navali di Monfalcone per cercare lavoro nella Jugoslavia socialista e per andare incontro ai loro ideali politici. Il controllo e la repressione da parte della polizia jugoslava è implacabile, un loro infiltrato impedì ad Aldo di portare a termine il suo intento, e fu così che finì nel gulag di Goli Otok (l’isola calva) dove trascorse ventidue mesi, prima di aver passato “ sei mesi in prigione a Fiume senza mai essere portato fuori all’aria, in una cella che in origine era per due persone e ne conteneva da 6 a 10 a seconda del momento” – come ricorda la moglie Ada. In quest’isola dell’arcipelago del Quarnaro furono deportati i detenuti politici, per lo più anch’essi comunisti; combattenti della guerra di Spagna, partigiani, deportati nei lager nazisti, carcerati e torturati nelle carceri fasciste, si trovarono così rinchiusi nei gulag jugoslavi e lì costretti a un lavoro massacrante nelle pietraie, sottoposti alla tortura, alle bastonate, alle umiliazioni, alla fame. Lo stesso Aldo operò come staffetta partigiana durante la guerra. Ma la ferita più grande Aldo la portò per sempre nel suo cuore; come poteva accadere tutto ciò? Come potevano le vittime diventare a turno carnefici dei loro stessi compagni?
Come dimenticare il “topli zec”, il trattamento della “lepre calda”, riservato ai nuovi arrivati, quando nei gelidi inverni di quegli anni, a decine, centinaia, correvano nudi lungo la via che conduceva al campo sotto i colpi dei “veterani”, mentre la strada grondava rosso sangue al loro passaggio. Quale mente diabolica aveva potuto inventare la gogna del “revidirci” – il ravvedimento – grazie al quale il prigioniero doveva rivedere la propria posizione denunciando i propri compagni, amici, a volte fratelli, figli o padri. Forse la stessa mente che affisse al porto dell’isola il cartello che in più lingue annunciava: “Benvenuti all’isola della libertà” – e che accolse Aldo molti anni dopo al suo primo ritorno con la moglie a Goli Otok, facendolo “imbestialire” per una tale grottesca, quanto falsa, affermazione.
Aldo uscì “pulito” dall’inferno di Goli Otok, senza mai denunciare nessuno: “Noi da questo usciamo puliti, gli altri, chi ci ha fatto questo, no”. Aldo seppe fin dall’inizio chi lo aveva denunciato alla polizia jugoslava ma, come ricorda la moglie Ada non ha mai voluto dire il suo nome perché ripeteva: “Questo qui ha una moglie e dei figli, cosa penseranno loro del padre una volta che sapessero tutto questo?”. “Abbiamo vinto una sola volta nella nostra vita, quando ci hanno messo in galera” – queste le sue parole a testimonianza di una forza interiore che per poterla comprendere occorre però essere coscienti di cosa fosse la “galera” di cui parla. La moglie Ada venne a conoscenza del calvario che subì suo marito, solo dopo sposati, dapprima attraverso i suoi incubi notturni, nei quali riemergevano i fantasmi del passato, e poi per brevi suoi accenni. Dovettero passare diversi anni prima che Aldo si decidesse a raccontare tutta la sua storia. Fu grazie a Giacomo Scotti il quale insistette sul finire degli anni ’80 affinché Aldo rilasciasse la sua testimonianza. “Quando mi raccontò tutto fu una cosa orrenda” – queste le parole di Ada, che non solo convinse il marito a raccontare ma trascrisse a macchina le decine di pagine della sua testimonianza. Scotti, giornalista, saggista e scrittore, definisce la “galera” di Aldo un “inferno concentrazionario”, nella sua opera fondamentale per capire cosa successe in quegli anni: “Il Gulag in mezzo al mare” – pubblicata nel 1991 e uscita in una nuova edizione nel giugno di quest’anno con nuove rivelazioni e testimonianze (Scotti sarà qui a Monza per portare il suo contributo di conoscenza alla fine degli spettacoli che si terranno al Binario 7).
Una volta uscito vivo da Goli Otok – molti lì morirono per stenti e torture – Aldo si trovò in un secondo inferno dettato dal completo isolamento nella società in cui rientrava, suggellato dalla firma estorta sul quel documento in cui i sopravvissuti dichiaravano che mai avrebbero fatto cenno alla loro storia. Goli Otok non doveva esistere, e con Goli nemmeno loro. Vissero per anni nel terrore e nell’isolamento totale, a volte anche da parte dei propri cari. Così fu per Aldo. Il silenzio si imponeva per non rischiare di coinvolgere parenti e amici in quella spirale di sospetti che durò decenni, persino dopo la morte di Tito. Ricorda Ada che anche molti anni dopo, di ritorno a Fiume, dove Aldo aveva ancora la sorella e il fratello: “non ha mai voluto rivedere i vecchi amici perché aveva paura di metterli nei guai; tutti quanti lo hanno poi confermato che erano seguiti e controllati”.
Aldo non aveva dubbi a proposito: “Una volta che sei finito nelle grinfie della polizia segreta quella non ti molla”. Oggi Aldo Juretich non è più qui con noi, possiamo però raccontare la sua storia e conservarne la memoria. La memoria di un uomo che, parafrasando l’epilogo del documentario “Il tramonto di Spartaco”, in cui sono raccolte la sua ed altre testimonianze, racconta un pezzo di “…storia della fede comunista, delle speranze e delle illusioni di militanti comunisti, della loro lotta ed eroismo” senza nascondere o dimenticare la violenza e la disumanità degli “altri” pur sempre comunisti. Ada ricorda come Aldo sentisse sulla sua pelle e soffrisse per le ingiustizie nel mondo e fino alla sua morte: “ il socialismo … non il partito socialista ma il socialismo come ideale … per lui era una cosa sentita e attuale”. La sua, come ricorda il regista Renato Sarti era una: “ incrollabile fede nei valori della democrazia, della liberta e della fratellanza; valori per i quali ha dedicato la sua vita e sacrificato gli anni più belli” .
Questi alcuni brevi pezzi della storia di Aldo Juretich cittadino monzese passato per l’inferno di Goli Otok. Tocca oggi alla città di Monza conservarne la memoria, anche con atti simbolici e concreti, non solo quale atto di “carità e giustizia per le vittime del male e del dolore”- come ci ricorda Claudio Magris – ma quale atto di “resistenza” alla violenza della Storia universale.
Umberto De Pace