Nel suo pontificato, Francesco ha smontato le vetrine dorate di una Chiesa troppo attenta ai salotti e troppo poco ai marciapiedi del mondo. Ha ricordato che la morale non si applica “a giorni alterni”. Né serve a giudicare gli altri tenendo ben nascosto il proprio armadio pieno di scheletri. Ha tolto la polvere dalle parabole e ci ha fatto inciampare dentro. Ci ha obbligato a dimenticare i “Vangeli light”. Quelli a zero impegno e ad alto tasso di ipocrisia.
Papa Francesco aveva messo in chiaro fin dall’inizio il suo stile. Niente offerte promozionali sulla coscienza. Niente mezze verità al gusto di compromesso. La morale cristiana? O la prendi tutta o lascia stare. Non è un’app da disinstallare quando dà fastidio. Per lui, l’amore per i migranti, per i poveri, per gli ultimi, non era una posizione politica, ma il punto zero del cristianesimo. E chi storce il naso, spesso è proprio chi si riempie la bocca di “valori non negoziabili”. Ma poi negozia ogni giorno con l’egoismo e l’indifferenza. Francesco non è stato un moralista. È stato (permettetemi il forte paragone, ma che rende l’idea) un ex buttafuori diventato Papa che ogni tanto dava una spallata alla nostra comoda indifferenza. Ci ha detto che la morale è quella che si vive con i piedi nella polvere e le mani sporche di servizio. Non con i post su Facebook o i video su Tik Tok.
Non era simpatico a tutti. Ma chi ha detto che la verità deve essere per forza simpatica? La morale, per Francesco, non era un codice da applicare col righello. Era un cammino. È scegliere ogni giorno il bene, anche quando costa. Soprattutto quando costa. D’altronde, come diceva spesso lui: “Il Vangelo non è acqua profumata. È fuoco”. E con il fuoco non si gioca. O brucia. O illumina. Del resto ripeteva: “Meglio un ateo con la coscienza pulita che un cristiano da copertina con le mani sporche”. Frase pesante come un macigno che libera un vento nuovo. Di responsabilità.