«Monza non aveva un romanzo storico. Ora lo ha». Valeriana Maspero, d’altra pare, di storia monzese ne sa abbastanza, per così dire: ha dedicato studi alla corona ferrea, formulando nuove ipotesi, al villa, al duomo, alla storia complessiva (“Monza. Crocevia di storia. Città d’arte”, 512 pagine, 20 euro, pubblicato lo scorso anno sempre dal Libraccio). E proprio per raccontare a tutti Bonincontro già aveva tradotto dal latino medievale il suo Chronicon Modoetiense, la storia della città scritta nella prima metà del Trecento che tra l’altro, racconta la vita di Gerardo dei Tintori e tramanda per la prima volta la leggenda del nome della città voluto dalla regina Teodolinda (“Modo” “etiam”, cioè “Qui?” “Sì”, la risposta della colomba che in sogno dice alla regina dove costruire la basilica monzese).
Proprio allora, racconta, ha avuto l’idea di dire di più della vita del suo autore, di cui in realtà si hanno poche tracce oltre quelle rivelate da lui stesso. E allora un affresco di un’epoca complessa e all’interno una storia di sangue, guerre, amori e passioni nella città medievale. È “Il ghibellino di Modoezia” (Valeriana Maspero, Libraccio editore, 2014, 544 pagine, 17.90 euro): il romanzo racconta la storia della famiglia Morigia, quella di Boniconcontro, autore del Chronicon Modoetiense sullo sfondo di uno degli scorci più difficili della storia di Monza, l’epoca in cui visse. «All’inizio del Trecento esplose la furibonda lotta tra i potenti Della Torre e gli emergenti Visconti per il controllo del territorio – ricorda l’autrice – una guerra condotta con manovre economiche spregiudicate, corse alle cariche e cruenti scontri armati». Era di Arrigo di Lussemburgo, Galeazzo, Marco e Azzone Visconti o Ludovico il Bavaro, papa Giovanni XXII, Dante, di Petrarca e di Boccaccio. «Monza si trovò spesso nell’occhio del ciclone, in quanto sede di quell’insegna del sacro romano impero – la corona ferrea – contesa tra il pretendente tedesco al trono sacroimperiale, il papato , il capitolo locale che deteneva la sede e la custodia del cimelio, i feudatari lombardi».
«Il testo segue la famiglia ricostruendone tre generazioni, dal capostipite Martino venuto da Milano con i suoi figli Giovanni, Simone, Rizzardo e Jacobo, ai molti figli di costoro, tra cui Bonincontro, ai nipoti tra cui Astinola, fino a Giovannino detto Nani, il nipotino del protagonista. Alle vicende di questa si intrecciano quelle di altre famiglie del tempo, come i Liprandi, gli Scotti, i Cavazza, i Pelucchi, i Bellioni, i Gualteri, gli Zevi, i Mantegazza, che forniscono i personaggi secondari della storia».
Ed è protagonista la città stessa, una città che allora era compresa nella cerchia della circonvallazione interna, quella che passa da via Manzoni, via Azzone Visconti, via Aliprandi, via Zanzi. «L’ambientazione mi ha dato l’opportunità di recuperare toponimi e luoghi della Monza medievale che sarebbe bello ricordare. Per esempio i nomi degli antichi quartieri, l’Arena, il Castrello, il Sottotorri, Ripalta, Mediovico, Carrobbio, Ingino, San Martino, Sant’Andrea. E poi le porte nelle mura: la Porta Nuova verso Milano, la de Gradi sulla strada di Agrate, la Porta de Leucho, la Carrobiola verso Vedano, la Porta de Como a san Biagio.
E poi le chiese e i conventi che non ci sono più, come Sant’Agata che era nella zona dell’Ufficio d’igiene, San Maurizio in via Vittorio Emanuele, San Michele in piazza San Paolo, San Francesco in piazza Trento al posto del liceo Zucchi». Poi il ponte d’Arena, la porta della Luna «dov’è rimasta una torre parzialmente rifatta», il Pratomagno che ha lasciato il posto a piazza Trento e la valle Bernasca dove oggi c’è la zona del Binario 7 e naturalmente il castello, di cui rimane pochissimo, voluto da Galeazzo Visconti proprio dove ora c’è la Rinascente.