Come il Regicidio del 1900 ha cambiato la storia di Monza e dell’Italia

Il sovrano pagò con il suo assassinio, ingiustificabile a prescindere, l'essersi visto addossare responsabilità riconducibili più al governo in carica. Imponente apparve il moto di cordoglio dopo l'attentato
Monza, il regicidio di Umberto I
Monza, il regicidio di Umberto I FABRIZIO RADAELLI

Tre colpi di revolver, la notte del 29 luglio 1900, hanno cambiato per sempre la storia di Monza e del Regno d’Italia. Da quella data la città cessa di essere sede, pure informale, di una corte che compete con quelle delle principali Casate europee. E la Villa -questo l’appellativo esatto alla dimora estiva dacché “reggia” non s’è mai chiamata- all’interno della Reale Tenuta di Monza, viene immediatamente chiusa dal nuovo sovrano. Infine, nel 1919, è retrocessa al Demanio, sempre per volontà di Vittorio Emanuele III. Raggiunto da tre ogive da 9 mm, scannellate a croce per renderle ancora più micidiali, Umberto I muore quasi sul colpo, dopo essere scampato, nel corso del suo “mestiere di re”, come egli stesso ha chiosato la sua carica, a due precedenti attentati.

Umberto I: la figura del “Re Buono”

Eppure, nella storia nazionale, Umberto figura con l’epiteto di “Re Buono” ed effettivamente lo stupore e il cordoglio generale seguiti alla sua fine dimostrano quanto fosse popolare la sua figura. Più che da re Umberto si atteggiava da ricco borghese, con virtù (e vizi) propri della categoria. Semplice e schietto di temperamento, fortemente dedito al ruolo per cui viene educato sin da piccolo, ha una inclinazione alla affabilità e alla generosità che si manifesta più volte nel corso del suo regno. Dal terremoto di Casamicciola al colera di Napoli, Umberto si è sempre esposto in prima persona e con un intento certamente meno studiato della cugina-consorte, Margherita. La sincera attenzione per il prossimo (le suppliche arrivano sovente sulla scrivania o persino alla tavola del re), il culto per gli eroi risorgimentali di cui conosce molti protagonisti (è un ammiratore di Garibaldi, il quale s’era prontamente convertito alla nuova forma istituzionale), l’entusiastica appartenenza all’esercito di popolo (per cui ricusa i progressivi tagli di bilancio) ne consacrano la figura in un’Italia ancora implume, con molte dicotomie e contrasti sociali, ma in evidente crescita. Stessa cosa per le sue passioni, assai comuni e condivise, quand’anche non sempre praticabili da chiunque: i cavalli, la caccia, le donne.

Umberto I: il ruolo del re a Monza

Per Monza il re ha fatto certamente molto. La Villa, “assegnatagli in proprio” già da principe ereditario, che Margherita al termine del viaggio nuziale, nel maggio del 1868, chiama “casa nostra veramente” comporta per la città un ritorno sostanziale, non solo di immagine. Circa una trentina i fornitori della R. Casa presenti tra Milano e Monza; numerose le dimore prese in affitto per i servizi della corte. Anche i lavori programmati in proprio dal Ministero della R. Casa, ricadono con benefico effetto sulla nostra comunità: dalla nuova stazione ferroviaria, al ridimensionamento del Regio Vivaio a favore del camposanto, sino al generoso contributo per l’erigendo ospedale “Umberto I” in via Solferino. Robuste elargizioni vanno alle congregazioni di carità e alle chiese: dalla basilica di San Giovanni alla Pieve di Agliate. Umberto, infatti, ancora più del suo genitore, si astiene dalle polemiche sulla Questione romana, sul modernismo, sull’educazione laicista o religiosa.

Umberto I: il cordoglio della nazione, dopo l’assassinio

Nella notte della sua drammatica dipartita, al termine di una giornata afosa e caldissima, scoppia un forte temporale, quasi un segno “purificatore” che lascia tutti -monzesi e ospiti forestieri- davvero sgomenti. Per alcuni giorni, sino al trasporto delle spoglie alla stazione, una processione interminabile di gente si affaccia ai cancelli della Villa per firmare il registro del lutto. Stessa cosa per il corteo funebre che accompagna la mastodontica e triplice cassa, allocata su un affusto di cannone delle Voloire, l’artiglieria a cavallo; per l’ordine pubblico vengono chiamati dei reparti di fanteria e di cavalleria da Milano, che rendono anche gli onori militari al sovrano. E un florilegio di opuscoli, immagini devozionali, articoli, epitaffi, commemorazioni, cerimonie di suffragio inondano la città, quindi il regno e infine valicano ben presto i confini nazionali (Umberto è presidente o socio di innumerevoli associazioni di mutuo soccorso, tra cui la Società Operaia Italiana). Non ci si stupisce di tanta partecipazione al dramma, quanto di come ha potuto accadere. Le teorie e le fanta-teorie cominciano a circolare sin da subito.

Umberto I: una devozione ancora intatta

Nel corso della rapidissima istruttoria giudiziaria, e poi nell’ancor più istantaneo processo, emerge un fatto oggettivo, incontrovertibile: al re sono state addossate colpe e responsabilità improprie, più facili a ricercarsi nel governo in carica e in quelli precedenti. Una politica estera avventurosa e disastrosa, affiancata da una condotta interna insensibile alle miserie e allo sfruttamento, esasperano anche una popolazione attiva e laboriosa, come quella milanese e monzese protagonista dei disordini del 1898. Ma in ogni caso un delitto è sempre un delitto. Ingiustificabile. Non c’è etica e morale nel tirannicidio. E i monzesi, i primi che tornano sul luogo del sacrificio di Umberto, lo comprendono bene. Qui, dove dieci anni dopo sorgerà la Cappella Espiatoria, il “martyrion” nostrano, i cittadini piantano una piccola croce di legno; qui portano fiori, biglietti e testimoniano con la loro presenza l’affetto all’uomo, prima ancora che al Capo di Stato. Sentimenti di devozione che si susseguono per anni e si rinnovano ogni 29 luglio, quando, nella notte, viene accesa da oltre cento lampadine la grande stele cruciforme di alabastro e il bagliore che da essa promana, genera nella pietà popolare la leggenda della “croce di fuoco”.