Salute, dentro la Casa della ricerca: dalla scienza made in Monza le speranze contro l’Alzheimer

Un farmaco per la cura dell’Alzheimer è la sfida più importante del gruppo di ricerca di nanomedicina guidato da Massimo Masserini nell’edificio U28 che l’università Milano Bicocca ha inaugurato a Monza nel 2015 con un investimento di oltre 13 milioni di euro. Ecco chi ci lavora e cosa fa.
L’equipe della Casa della ricerca di Monza: l’edificio U28
L’equipe della Casa della ricerca di Monza: l’edificio U28

Un farmaco per la cura dell’Alzheimer è la sfida più importante del gruppo di ricerca di nanomedicina guidato da Massimo Masserini nell’edificio U28 che l’università Milano Bicocca ha inaugurato a Monza nel 2015 con un investimento di oltre 13 milioni di euro.

Qui lavorano dei veri e propri designer di nanoparticelle – scrive l’università Milano Bicocca che ha trovato casa, nel campo della medicina, a fianco dell’ospedale San Gerardo: sono i ricercatori di nanomedicina dei dipartimenti di medicina e chirurgia, biotecnologie e bioscienze, fisica e scienza dei materiali.

Alzheimer- Un progetto di ricerca già a uno stadio avanzato che potrebbe vedere il primo trial clinico alla fine del 2019, più o meno tra un anno e mezzo, per cercare di cambiare il corso di una malattia importante e per la quale Monza, sotto altri fronti, sta già facendo molto: il “Paese ritrovato” di cui il Cittadino ha raccontato i primi giorni di vita reale. Il gruppo di lavoro è composto da una sorta di designer di nanoparticelle, ricercatori di nanomedicina dei dipartimenti di Medicina e chirurgia, biotecnologie e bioscienze, fisica e scienza dei materiali che stanno mettendo a punto nuovi dispositivi medici diagnostici o terapeutici, finalizzati sia alla cura dei tumori che di malattie neurodegenerative come Sla e Alzheimer.

«Sull’Alzheimer – spiega Masserini, che è anche Ceo della spin off dell’università Amipopharma – i test di laboratorio effettuati sui topi ci fanno bene sperare. Nei topi con malattia d’Alzheimer le nanoparticelle funzionano e riescono a rimuovere le placche nel cervello responsabili, per esempio, della perdita della memoria». In laboratorio è stata effettuata la prova del riconoscimento di oggetti: a un gruppo di topi sono stati mostrati due oggetti identici, poi il giorno successivo un oggetto nuovo abbinato a quello già mostrato. I topi senza Alzheimer provano interesse per il nuovo oggetto e rivolgono l’attenzione solo a quello, i topi con Alzheimer invece non hanno memoria dell’oggetto già visto e non fanno differenze tra i due oggetti. «Dopo il trattamento con le nanoparticelle anche i topi con Alzheimer sembrano recuperare la memoria e riconoscere l’oggetto già visto».

Per passare dal laboratorio “al letto del malato” occorrono investimenti importanti e, proprio nelle scorse settimane, il consiglio dell’ateneo con Amypopharma ha siglato un accordo con la società di investimento Biovelocità di Milano, che finanzierà con 800mila euro per il primo anno le tappe necessarie per arrivare alla sintesi di un farmaco per l’uomo.

«Ad essere ottimisti in un anno e mezzo dovremmo iniziare il trial clinico. L’ideale sarebbe selezionare pazienti con una fase iniziale di Alzheimer o addirittura con quelli con una perdita lieve di memoria che potrebbe evolvere in Alzheimer». Il reclutamento di pazienti potrebbe partire proprio dai reparti dell’ospedale San Gerardo di Monza con cui Bicocca ha già diversi accordi in atto, ma sicuramente si tratterà di uno studio che coinvolgerà più centri.

Intanto tra il 20 e il 24 luglio il professore Masserini volerà a New York insieme alla collega Francesca Re per partecipare al meeting annuale della Controlled release society, l’ente che si occupa della diffusione delle pubblicazioni a carattere scientifico. Saranno loro i premiati con il “Jorge Heller Outstanding Paper Award” per un articolo dedicato alla ricerca sull’Alzheimer che è stato giudicato la miglior pubblicazione del 2017.

Biopelle e 3D – La grande sfida è anche quella di creare tessuti morbidi e vascolari, adatti per riprodurre organi come la pelle, il fegato o il pancreas. «Per il momento ci accontentiamo anche di una porzione di organo». A parlare davanti ad una piccola biostampante 3D è Laura Russo, ricercatrice di chimica organica, formata in Bicocca, rientrata in Italia dopo un dottorato a Londra e un’esperienza in un centro di ricerca sui biomateriali in Irlanda.

Il suo laboratorio è nell’edificio U28. Al di là della sigla, per tutti è la “Casa della ricerca”, sede di una cinquantina di studiosi tra gli oltre 140 dell’intero dipartimento.

«Con un team di cinque studiosi – dice – siamo alle prove di stampa di porzioni di organi e tessuti. Il lavoro più complesso è realizzare una “libreria” di bioinchiostri per diverse linee cellulari, stiamo lavorando al materiale di costruzione che ci permetterà di arrivare ai tessuti e quindi ad organi relativamente semplici come un orecchio o molto più complessi come il pancreas».

L’obiettivo non è solo quello di riprodurre in laboratorio di un organo pronto per il trapianto, ma anche e soprattutto a sistema in vitro per studiare cosa succede in presenza di alcune patologie o come le cellule rispondono ad un determinato farmaco.

«Il 3D bioprinting – prosegue Russo – richiede un team di ricerca multidisciplinare, in cui le competenze su fisiologia, cellule e materiali siano ben integrate. Si parte dagli organi e dalle loro caratteristiche, passando per le funzionalità e i componenti cellulari, e si finisce con il disegno di materiali che, insieme alle cellule, verranno biostampati».

Il procedimento prevede l’uso di una soluzione di cellule in sospensione in un gel a base di acqua come inchiostro. I tessuti e gli organi, prodotti a partire da uno stampo in materiale sintetico biodegradabile, sono composti da un reticolo di sottili canali attraverso i quali acqua, ossigeno e sostanze nutritive possono raggiungere le cellule trattenute nel gel. Man mano che le cellule colonizzeranno la “protesi” biodegradabile, questa si dissolverà fino a scomparire completamente.

Tumori – “La interdisciplinarità della competenze permette di condurre progetti di ricerca integrati per la creazione di nuovi nano-dispositivi medici diagnostici o terapeutici, finalizzati alla loro traslazione alla clinica” scrive l’ateneo in una nota. “Le ricerche sono incentrate soprattutto sulla terapia dei tumori e delle malattie del sistema nervoso centrale. Nel caso dei tumori la ricerca è indirizzata verso creazione di nuovi dispositivi per terapia genica, immunologica e per ablazione termica (ipertermia)”. Tra l’altro “diagnosi più precise con l’imaging-molecolare: il gruppo di ricerca di proteomica sta studiando una nuova tecnica con spettrometria di massa per migliorare la diagnosi del tumore della tiroide e del rene”. In Italia esistono soltanto due centri hanno la tecnologia. 800.000 gli euro che lo studio ha ottenuto dalla società milanese Biovelocità per sviluppare la ricerca fino ai test sull’uomo.

Dove e come – La casa della ricerca è il luogo dove avverrà tutto questo in un futuro non così lontano. È il luogo ideale per la medicina di frontiera: cinque piani e 1650 metri quadri , ricercatori con competenze diverse dalla nanomedicina alle scienze omiche, considerate centrali nella medicina di precisione, otre ad una società per lo sviluppo di strumentazione scientifica e uno spin-off dell’università per lo studio di farmaci per la cura del sistema nervoso centrale.

L’edificio è dotato di strumentazioni per competere anche a livello internazionale: cinque linee di gas tecnici, una linea di aria compressa e una del vuoto in ogni laboratorio, 45 impianti di estrazioni per lavorazioni sotto cappa, locali di stoccaggio e travaso per solventi e reagenti, camere fredde e calde, fino ai locali congelatori.