Ritrattò le accuse e poi si suicidò «Costretta da familiari e avvocati»

ll fratello Giuseppe, latitante, era stato bloccato dai carabinieri a Paderno Dugnano ad aprile del 2012. Era ricercato perché con i genitori aveva indotto al suicidio la sorella Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia. A distanza di due anni e mezzo arrestati anche gli avvocati della donna.
Maria Concetta Cacciola morta suicida nel 2011
Maria Concetta Cacciola morta suicida nel 2011

Il fratello Giuseppe, latitante, era stato bloccato dai carabinieri all’esterno di un centro commerciale di Paderno Dugnano ad aprile del 2012. Aveva detto di essere arrivato «il giorno stesso» dell’arresto. «Ho tre figli minori, ho bisogno di lavorare» e per questo, aveva detto al giudice, aveva falsificato il suo documento di identità . Ma il giudice non gli aveva creduto e l’aveva condannato a un anno e quattro mesi. Era ricercato per una accusa molto grave: aver indotto al suicidio la sorella Maria Concetta Cacciola, che con le sue rivelazioni alla magistratura antimafia aveva fatto arrestare importanti esponenti della ’ndrangheta. La stessa accusa per i genitori, arrestati a febbraio del 2012, (e condannati nei giorni scorsi a 4 anni il padre e a 2 anni la madre mentre il fratello Giuseppe a 4 anni e 6 mesi). E ora coinvolti anche i legali della donna, due principi del foro di Palmi, in Calabria, che secondo gli inquirenti la costrinsero a scrivere sotto dettatura e poi a leggere una lettera pubblica, registrata con un apparecchio audio, con la quale ritrattava le accuse ai boss. Le accuse per gli avvocati, arrestati, vanno dal concorso in violenza privata al favoreggiamento, reati aggravati dal metodo mafioso. Maria Concetta, di Rosarno, figlia del cognato del boss Gregorio Bellocco, considerato uno dei capi dell’omonima cosca legata a quella dei Pesce,e moglie di Salvatore Figliuzzi, svelò alla direzione distrettuale antimafia calabrese gli affari criminali della propria famiglia. Dichiarazioni che permisero di arrestare undici presunti affiliati alla cosca Pesce e di scoprire due bunker usati dai latitanti. La donna fu trasferita in sede protetta e la famiglia alla quale furono affidati i figli, la rinnegò. Ma a lei i figli mancavano troppo, quindi decise di tornare da loro, a Rosarno. Fu la sua condanna a morte: i parenti la picchiarono fino a rompergli le costole, le impedirono di uscire di casa e, quando capitava, la fecero pedinare dai loro scagnozzi. Quindi, perchè ritrattasse le dichiarazioni rese ai magistrati, la minacciarono dicendole che non le avrebbero permesso di vedere i figli. Violenze fisiche e psicologiche che ad agosto del 2011, a 31 anni, la indussero al suicidio bevendo dell’acido muriatico.