“Vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”. Fernanda Pivano disse di questi versi di “La guerra di Piero” che erano la più sintetica ed efficace descrizione dell’inutilità della guerra mai fatta da poeta.
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Quella resa immortale da De Andrè è la guerra vista con gli occhi della trincea, con quell’”anima in spalle” dei sei milioni di italiani che furono chiamati alle armi per la Grande guerra. Di quei ragazzi del ’99, 651.000 morirono in battaglia, quasi 600.000 furono i decessi tra i civili per un totale di oltre 1.240.000 morti.
«Siamo sicuri che quella fu davvero una vittoria del popolo italiano?». Con questa domanda la sezione di Monza e Brianza dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra accoglie i visitatori nella sua sede di via Passerini 6, dove fino a domenica 4 novembre sarà allestita una mostra di oggetti di trincea, appartenuti ai soldati di entrambi i fronti. Un piccolo allestimento ricco di emozioni e suggestioni. Un racconto per oggetti di un inferno visto con gli occhi di una generazione strappata alle proprie vite per andare a combattere la guerra dei generali, con indosso indumenti inadeguati e attrezzature di scarsa qualità. A cominciare dal bicchiere e dalla gavetta che conteneva il rancio.
«Il bicchiere italiano era senza manico, scomodo e poco maneggevole. Le posate date ai nostri soldati e che sono arrivate fino a noi, sono oggi completamente attaccate dalla ruggine, a differenza di quelle dell’esercito austroungarico, che invece contenevano già inox, e dunque più resistenti».
È Claudio Arrigoni, presidente della sezione provinciale dell’Associazione, ad accogliere i visitatori, raccontando le disumane condizioni di vita dei soldati in guerra, e quell’inutile strage che ancora oggi viene celebrata come una vittoria.
«Non ho voluto mettere in mostra alcuna arma – spiega il presidente, villasantese, figlio di un mutilato della Seconda guerra mondiale e nipote di un reduce della Grande guerra – tranne una. Si tratta di un moschetto fabbricato nel 1913 completamente divorato dalla ruggine. È quello il simbolo più efficace dell’inutilità di quella guerra e di tutte le guerre che hanno macchiato la storia dell’umanità».
Una mostra nata dall’amicizia con Giampaolo Ratti, collezionista di cimeli di guerra, che ha prestato i suoi tesori per la realizzazione dell’allestimento.
Tra gli oggetti più suggestivi ci sono le pale e le picozze usate su entrambi i fronti per scavare le trincee e poi il pesante megafono, di fabbricazione austroungarica, utilizzato dagli ufficiali per impartire gli ordini. E ancora scatolette di tonno e carne, il contenitore del rancio con il mestolo, il macina caffè, per concedere, solo agli ufficiali però, una tazza tra una battaglia e l’altra.
A sfiorare quegli oggetti sembra di vederli, i giovani in attesa di un segnale, mentre scrivono alla famiglia, alla fidanzata, agli amici. «L’esercito li metteva in posa in divisa per la fotografia ufficiale, e regalava a ogni soldato una decina di cartoline da spedire a casa. Spesso erano l’ultima immagine che madri, moglie e sorelle ricevevano dal loro caro», continua Arrigoni.
Oggetti di uso comune che raccontano guizzi di genialità come la tazza che un soldato italiano ha ricavato da un bossolo di cannone. Suggestiva la scala usata dagli alpini per raggiungere le vette e l’arpione che lanciavano durante l’arrampicata per verificare la solidità della roccia. E ancora i frammenti del filo spinato, i ramponi da neve e poi le foto: i soldati della prima sezione San Michele asfissiati dal gas e le macerie di Nervesa dopo il passaggio dell’artiglieria nemica, le truppe fotografate dall’alto nella neve, simili a formiche disperse nella terra.