Biondo era e bello ha scritto nel Novecento Mario Tobino di Dante Alighieri, ma la storia scritta da tante mani per Gian Paolo Osio è diversa. E inizia così: “Bruno, alto, snello, d’una eleganza innata, anche se qualche volta mal vestito e trascurato, dotato di quella specie di fascinoso prestigio che deve agli esercizi fisici, come la scherma, la danza e l’andare a cavallo.”
Lo descrive così Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriae del diciassettesimo secolo: e sembra parlare di un hipster del Seicento. Bon chic, bon genre, ma con una naturale inclinazione al crimine. Persino genetica.
È una storia scritta col sangue, quella di Gian Paolo Osio, il seduttore assassino, il conte killer. E ha tutta l’aria di una storia di vendetta. Perché quando l’Egidio di Manzoni decide di puntare gli occhi oltre le mura del convento di Santa Margherita, è difficile dire il contrario: lo fa per sedurre la donna malmonacata che governava Monza. Suor Gertrude, per don Lisander, suor Maria Virginia, per l’anagrafe monacale del Seicento, Marianna de Leyva per il secolo: la Signora di Monza. Sono due le mostre che ne ripercorrono la vita per immagini (ai Musei civici e al Serrone della Villa reale, dove il Cittadino è media partner), ma Ettore Radice con l’associazione Mnemosyne domenica 23 ottobre ha portato in scena in via Teodolinda una prospettiva differente: ha ricostruito la storia dell’uomo che ha deviato la traiettoria dell’erede de Leyva fino agli anni Duemila, filtrati dal romanzo di Manzoni.
Non è la storia di un uomo che non ha saputo tenere a bada il testosterone e si è affacciato alle grate del convento per innescare una catena di crimini: è il piano di un ragazzo (o poco più) che messo al bando dalla Signora ha pianificato la sua seduzione. Fino a farne la vittima di se stessa.
Un’ipotesi, quella di Radice, e d’accordo. Ma ci sono i fatti. Già dal 1500 la famiglia del conte, bergamasca, era divisa in tre rami distribuiti tra Biassono, Vedano e Monza. Il padre di quello che nel romanzo manzoniano è Egidio aveva già dato una mano al fratello per mandare al Creatore un po’ di gente che aveva avuto il torto di non chinare il capo, a metà del secolo.
Dallo zio, Gian Paolo, avrebbe ereditato una parte della sua fortuna. Il padre, d’altra parte, assetato di denaro non avrebbe guardato in faccia a nessuno: tanto che dopo avere massacrato un parente, conte di Solbiate, si sarebbe ridotto a uscire di casa soltanto con un esercito di bravi. Il fratello di Gian Paolo non apparteneva a una risma migliore: dopo essere stato complice di omicidio di una casa di prostituzione maschile è stato fatto fuggire oltre i confini. E lì, nelle Venezie, è morto poi per mano di un amante (senza apostrofo).
“Ricco a sufficienza per mantenersi qualche bravo, ha cavalli, carrozze ed è proprietario di terre e case a Monza, alla Santa, a Vedano, a Velate” ricostruisce Radice, che ricorda un documento degli archivi storici monzesi in cui è protagonista con i suoi amici del tempo: “Johanne Paolo Casate, Francesco Ghiringhello, Fabio Trezzo, Josepho Serono, Andrea et Gabriele fratelli de Marcellini, Lodovici et Giulio Cesare fratelli de Pessina, li quali con molti seguaci loro, continuamente di notte et giorno non fanno altra professione che camminare in quadriglia armati d’armi prohibite, massimamente archibugi, scalar case, usar violenza, assaltar hora questo hora quest’altro, dandogli ferite.”
Il vero guaio lo combina nel 1597: uccide un “fiscale” dei de Leyva, Molteno. Non può passarla liscia. Suor Virginia Maria era monaca da sei anni ed era feudataria della città: lo denuncia. Lui per un anno scappa dalla città e poi torna. È la superiora del convento, Francesca Imbresaga, amica della madre dell’Osio, a convincerla: anzi, dalla sua posizione “le comanda il perdono “sotto pena di obbedienza”, come hanno fatto i suoi fratellastri i conti De Leyva”, scrive Radice.
La condanna di Gian Paolo Osio alla fine è durata sei mesi: quando torna pianifica la sua vendetta. Inizia con la seduzione della monaca, passerà da un omicidio e due tentati omicidi di consorelle di Santa Margherita, si concluderà in fuga. Dopo essersi rifugiato dai nobili Taverna a Milano, sarà ucciso da loro a bastonate. Non per la taglia: per interessi politici.