«Gli misi la busta in mano, dissi che le mazzette non mi andavano più bene»: Luca Magni e l’inizio di Tangentopoli, 30 anni fa

Sono passati 30 anni dall’arresto di Mario Chiesa che ha innescato Tangentopoli, grazie al monzese Luca Magni. Nel 2012 così aveva raccontato al Cittadino quel 17 febbraio 1992.
Luca Magni
Luca Magni Radaelli Fabrizio

Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa a Milano avviava Tangentopoli. Ne sono passati trenta, di anni, da allora. E dieci anni fa il motore di quell’arresto, il monzese Luca Magni, raccontò quel giorno al Cittadino, all’allora caporedattore Ernesto Galigani. Ecco l’intervista.

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Questa è la storia di un uomo che ha scritto un pezzo di storia. Non suonerà bene, d’accordo, ma rende bene l’idea. Il primo a saperlo è proprio lui, Luca Magni, classe 1960, monzese tutto d’un pezzo che – vent’anni dopo – si trova a dover rievocare a reti unificate, l’occhio del ciclone che spazzò via l’intera classe politica dell’epoca.

Cominciando dal mariuolo Mario Chiesa, il socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, al quale consegnò la più celebre delle mazzette. Sette milioni di lire sulle quali erano incise – una per ogni dieci banconote da centomila – le firme del capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e del pubblico ministero Antonio di Pietro. La prova del maltolto. Si schermisce, il Luca Magni, quando gli si ricorda il posto che si è ritagliato negli accadimenti di questa scalchignata repubblica. «Altro che storia – ribatte – In realtà, non mi interessava scardinare il sistema. Mi sarei accontentato di addormentarmi la sera in pace con la coscienza». E quella sera di lunedì 17 febbraio 1992, anno ultimo della Prima repubblica, ci riuscì. Senza più quel tarlo che – da un annetto e mezzo – gli rovinava la digestione.

«Gli misi la busta in mano, dissi che le mazzette non mi andavano più bene»: Luca Magni e l’inizio di Tangentopoli, 30 anni fa
Tangentopoli a Monza nel 1992: la protesta del pubblico in una seduta di Consiglio comunale

«La percentuale era del 10 per cento – rievoca – Nessuno si indignava, come se stessimo parlando di una marca da bollo su un documento. Il sintomo più evidente di quanto il sistema fosse marcio e che, Luca Magni o no, sarebbe caduto da solo. Prima o poi, si capisce…». Gli è toccato più volte, in questi giorni, riavvolgere il nastro della memoria. Tutti a chiedergli conto di quella mazzetta e, a ben pensarci, basterebbe questo – prima ancora delle imprese della cricca – per rendersi conto di come il tempo sia passato invano. Lui conferma ma, davanti al cronista, precisa di essere rimasto sempre lo stesso. A distinguerlo da quel ragazzotto di 32 anni arrivato dalle file del Movimento Sociale e che di pagare per lavorare proprio non ne voleva sapere, ci sono i capelli – un po’ più radi – una famiglia («ma ai miei tre figli non ho ancora spiegato quegli anni») e, forse, l’abbigliamento un po’ più ricercato. Oltre al fatto che, per paradosso, adesso lui siede alla presidenza di una società pubblica del comune di Monza.

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«Dall’altra parte della barricata, certo, ma con la moralità di sempre», chiosa anticipando la più scontata delle domande. E parliamone un po’ di questa moralità. «La mia non era proprio un’impresa di pulizie, facevamo dei trattamenti innovativi negli ambienti sanitari. Così, attraverso la casa madre svizzera che mi aveva avviato alla professione, ero arrivato al Pio Albergo Trivulzio. Un bell’appalto, certo, ma non l’unico. Lavoravo per il Valduce, l’ospedale di Como e in un sacco di altri posti».

«Gli misi la busta in mano, dissi che le mazzette non mi andavano più bene»: Luca Magni e l’inizio di Tangentopoli, 30 anni fa
Tangentopoli a Monza nel 1992: la protesta del pubblico in una seduta di Consiglio comunale

E il Chiesa, il potentissimo Mario Chiesa del Partito Socialista Italiano? «Lo conoscevo di vista. Girava per i reparti della Baggina e per la dependance di Merate con il codazzo al seguito». Una scena, per chi si ricorda il genere, alla Alberto Sordi-Guido Tersilli del “Medico della mutua”. «Cazziava tutti quando vedeva una magagna, gli piaceva farsi bello davanti agli ospiti». Insomma, un piacione. «Poi un bel giorno mi chiama in ufficio e bel bello mi dice che se voglio lavorare ancora al Pio Albergo Trivulzio devo dargli il 10 per cento di quanto fatturo». Luca Magni paga a piè di lista ma con il groppo in gola. «Certo, avrei potuto rifarmi sulle fatture e quel dieci per cento uscito dalla porta sarebbe rientrato dalla finestra. Tutti facevano così… Ma che uomo sarei stato? Così ne ho parlato con mia sorella e poi, un venerdì mattina, ho bussato al portone della caserma di via Moscova a Milano. Mi hanno fatto parlare con il capitano Zuliani e lì, seduta stante, ho messo a verbale tutto. Le richieste, gli appalti, i soldi che mi erano stati chiesti».

Lunedì mattina, due giorni dopo, l’incontro con il pm Antonio Di Pietro – «passava per uomo di destra e credo che lo sia tuttora» – e l’organizzazione del blitz. «Mi misero un microfono addosso e in una busta, dentro una valigetta nera, 7 milioni in contanti con tanto di firma autografa di Zuliani e Di Pietro. In realtà avrei dovuto versare a Chiesa un totale di 14 milioni ma mi dissero che era meglio tenerci la possibilità di una seconda imboscata, nel caso fosse andata male».

«Gli misi la busta in mano, dissi che le mazzette non mi andavano più bene»: Luca Magni e l’inizio di Tangentopoli, 30 anni fa
Tangentopoli a Monza nel 1992: la protesta del pubblico in una seduta di Consiglio comunale

Non andò male. Accompagnato da un carabiniere in borghese spacciato per collaboratore, alle 17 Luca Magni scrisse la prima pagina di Tangentopoli. «Gli misi in mano la busta, aggiungendo che quel sistema lì, delle mazzette, non mi andava più bene. Per tutta risposta, alzò gli occhi tra il distratto e l’infastidito e mi chiese quando gli avrei dato l’altra metà. Questo era Chiesa». Il tempo di uscire e nell’ufficio si scatena l’inferno. Entrano i carabinieri che gli chiedono conto della busta. «Sono soldi miei» disse Chiesa. «No, sono soldi nostri» ribattè il militare mostrando le firme.

«Tutto così, molto semplice – ricorda Magni – Altro che i 30 milioni buttati nello sciaquone. Figurarsi». Alla sera, nella casa di Vimercate della sorella, Magni si accorse di non avere più un peso sullo stomaco. «È strano raccontarlo ma mi ero sentito libero per la prima volta dopo tanto tempo». I guai cominciarono dopo. Perché all’improvviso le aziende che gli avevano dato lavoro cominciarono a tirarsi indietro, con le scuse più assurde. «Compresa una grande fondazione religiosa – ricorda con amarezza Magni – Avevo l’impressione di essere io la mela marcia del sistema, quello che non si era adeguato. E non il contrario, come i miei genitori mi avevano insegnato parlando di onestà e rettitudine». Ma la macchina era in movimento.

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Rincorso dai giornalisti («La prima intervista, un mese più tardi, con Maurizio Losa per la Rai, io non volevo ma il mio avvocato me lo consigliò per sfuggire all’assedio»), corteggiato e blandito da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ma lui non era cambiato. Ad aprile si candidò con il suo Msi, risultò il più votato dai monzesi ma, una volta in municipio, si stufò presto. Fece un “Movimento indipendente monzese” («C’erano anche due socialisti, di quelli che non prendevano le mazzette») e, nel 1997 si ritrovò assessore alla cultura. Poi il transito in Forza Italia, l’abbandono della politica, il ritorno dopo un paio d’anni con Alleanza Nazionale e una militanza quasi decennale da semplice volontario. Quindi, ed è storia recente, la collaborazione con Dario Allevi e la presidenza di Scenaperta spa (oggi, nel 2022, liquidata, ndr). Ma la politica attiva, quella no, non lo interessa più.

«Non ci penso neppure a candidarmi a Monza. Aiuterò l’eventuale campagna elettorale di Allevi – conferma – È una persona onesta, lo stimo molto e sarebbe un sindaco ideale per la città». Tangentopoli gli ha portato via un sacco di cose. A cominciare dal lavoro. «In due anni il fatturato della mia azienda precipitlò da più di un miliardo di lire a 200 milioni. Mi sono ritrovato sul banco degli imputati per bancarotta e ci sono voluti anni per uscirne, pulito e specchiato come e più di prima». E non gli ha regalato né onori né soldi. «Nemmeno mi costituii parte civile, i legali di Chiesa mi restituirono i 50 milioni di tangenti che ero stato costretto a versare per lavorare e neppure una lira in più. Non mi interessava sfruttare l’onda lunga del consenso, avevo solo fatto quello che dovrebbero fare tutti».

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Tangentopoli a Monza nel 1992: la protesta del pubblico in una seduta di Consiglio comunale

A chi gli chiede se è pentito del suo gesto dice che no, lo rifarebbe mille e una volta. «Perché l’etica, nella vita, viene prima di tutto. Ma la corruzione non è scomparsa, figuriamoci. È solo cambiata, in peggio: prima si rubava anche per il partito, adesso per l’arricchimento personale». E, come allora, nessuno si indigna più. Tranne lui, il Luca Magni che da vent’anni conserva una delle banconote da 100 mila lire con la firma di Zuliani e Di Pietro. Un ricordo, certo. Ma anche un modo per spiegare ai figli, quando cresceranno, come basti poco – una banconota, appunto – per scrivere un pezzettino di storia. E dormire la notte. Prosit, Magni e cento di questi giorni.