Covid a Monza e Brianza cinque anni dopo, il giornalista Gaeta: «Ma la gente scorda in fretta»

Carlo Gaeta a marzo 2020 ha vissuto in prima persona l’esperienza devastante del Covid e della terapia intensiva.
Carlo Gaeta
Carlo Gaeta Fabrizio Radaelli

«Il tempo passa veloce e la gente dimentica in fretta: la mia impressione è che molti abbiano voluto cancellare quei giorni». Per lui, invece, scordarli è impossibile: Carlo Gaeta ha vissuto in prima persona l’esperienza devastante del Covid e della terapia intensiva in un periodo in cui del virus si sapeva molto poco, o «quasi nulla».

Covid a Monza e Brianza cinque anni dopo, Carlo Gaeta e l’amico medico Paolo Viganò

Ricordare oggi quello che è successo, per lui, classe 1958, giornalista, addetto stampa e comunicatore da una vita, è più di un dovere. E allora un salto indietro nel tempo, per ricostruire quello che è stato.
Gaeta inizia a sentirsi male il 5 marzo del 2020: per qualche giorno resta a casa poi, anche su spinta dei familiari, chiede aiuto e viene ricoverato all’ospedale di Erba. Da lì poi viene trasferito a Legnano, dove prestava servizio il medico Paolo Viganò, amico di una vita che «in quel periodo ha salvato me e tante altre persone. Sapeva che non stavo bene, ma avevamo perso i contatti. Si era attivato per capire dove fossi e in quali condizioni mi trovassi. È stato un gesto di amicizia che mi ha commosso e che non saprò mai ripagare. Ma di gesti di umanità, in quelle settimane, ne ricordo tanti. Per questo non riesco a ripensare a quell’esperienza come a qualcosa di esclusivamente negativo: ho incontrato tante anime belle e grazie all’impegno, all’attenzione e allo spirito di abnegazione di oss, infermieri e medici che hanno lavorato senza sosta, non mi sono mai sentito solo. Anzi, ero protetto».

Covid a Monza e Brianza cinque anni dopo, Carlo Gaeta: «Mi ritengo fortunato, ma avrei sperato in un mondo migliore»

Dopo una dozzina di giorni in terapia intensiva e altrettanti, poi, in bassa intensiva, Gaeta – che da cronista non poteva che raccontare la sua esperienza sui social, l’unico modo, del resto, attraverso cui si poteva comunicare – torna negativo il 19 aprile 2020. Poi, finalmente, riprende la strada di casa, portando con sé però una serie di strascichi e di acciacchi che, ancora oggi, non sono del tutto passati (e su cui coltiva ancora parecchi dubbi).

«Mi ritengo fortunato: mi sono ammalato nella prima fase dell’epidemia e sono stato curato, ho portato a casa la pelle. Per questo speravo, e molti speravano come me, credo, di veder nascere dalle ceneri della pandemia un mondo migliore, soprattutto da un punto di vista etico e morale. In realtà siamo molto più egoisti di prima, ed è un peccato. Dovremmo imparare a conservare la memoria di quello che ci accade, di quello che viviamo: perché ci aiuta – ci aiuterebbe – a crescere».