30 anni fa il disastro della Val di Stava: sotto il fango muoiono 14 brianzoli

Il 19 luglio 1985 i bacini della miniera di Prestavel riversano sull’abitato sottostante 160mila metri cubi di fango. 268 persone le vittime. Interi hotel distrutti. Un nuovo Vajont dimenticato troppo in fretta.
La straziante ricerca dei corpi nel fango (foto di Luca Rossetti, giornalista inviato a Stava nel 1985)
La straziante ricerca dei corpi nel fango (foto di Luca Rossetti, giornalista inviato a Stava nel 1985)

I turisti, tanti lombardi, e tra loro molti brianzoli che da anni prediligono la tranquillità di questa valle, sono già arrivati. Siamo in Trentino, Val di Fiemme. Luglio é il mese più adatto per concedersi qui un po’ di meritato riposo. A Stava poi, c’è quell’albergo, il Miramonti, gestito dall’Acli, e “condotto” da gente della Brianza, dove le famiglie si sentono a casa anche in vacanza. Sono le 12 e 22 minuti del 19 luglio 1985, quando le vite e le storie di molti brianzoli si incrociano tristemente, in un unico destino inatteso e devastante, con quelle di molti abitanti del posto e di altri ignari turisti da tutta Italia. In alto, sopra Stava, la piccola frazione del comune di Tesero, ci sono i due sovrapposti bacini di decantazione della miniera di Prestavel, proprio alle pendici dell’omonimo monte.

Stava è valle di turismo, di luoghi incontaminati che rappresentano occasioni di ristoro e tranquillità. Nelle viscere di quella terra, però, c’è anche una ricchezza da sfruttare, la fluorite, minerale utilizzato nella siderurgia. Parte da qui la tragedia di quel luglio 1985. Il luogo scelto per la realizzazione del primo bacino al servizio dell’attività di estrazione, e siamo nel 1961, si chiama Pozzole. Perché? Per via delle tante pozze d’acqua presenti. Ecco: un bacino nel luogo che sembra meno adatto, più fragile, proprio per quelle pozze. Ma nessuno si ferma. Anzi. Sembra un “piccolo Vajont” annunciato la tragedia di Stava, dove il termine piccolo pare assolutamente improprio e cannibale di fronte all’elenco di quei 268 morti, (i corpi di 13 persone non vengono mai ritrovati) che ancora oggi lascia senza fiato. Nel 1969 viene fatto il secondo bacino, a monte del primo. E poi, a seguire, ecco modifiche dell’esistente. Il 19 luglio 1985 in quei bacini sono in corso dei lavori. Sotto, nella valle, gli alberghi sono pieni e tutti stanno per mettersi a tavola quando quegli argini si rompono e scaricano 160mila metri cubi di fango sull’abitato di Stava, alla velocità di 90 chilometri orari, 25 metri al secondo.

I limbiatesi Giancarlo e Teresina Colombo, con la figlia Deborah di soli 14 anni. Un altro ragazzino, quasi coetaneo di Deborah, Matteo Galimberti di 13 anni, di Desio, con la mamma Maria Rosa Valtorta. I due giovani fratelli di Cesano Maderno, Paolo e Davide Disarò e i loro concittadini, i coniugi Aldo e Santina Santambrogio, di Binzago. I Vertova, Luigi, Maria Grazia e Rina Goffi, da anni trasferiti a Milano, ma originari di Limbiate. E ancora Fiorella ed Emanuele Negri, mamma e figlioletto di Ronco Briantino, Franca Colombo (1934) di Cornate D’Adda e Gaetano Lo Vetere, classe 1935, di Paderno Dugnano. É il carico di dolore che la Brianza ha consegnato alla tragedia di Stava e a quella valle disgraziata, non per natura ma per colpe dell’uomo. A tutti loro quel loro sembrava perfetto, accogliente.

Sono passati 30 anni da quel 19 luglio 1985. Oggi come allora nulla é cambiato nelle famiglie distrutte da quella devastante colata di fango. Chi non c’è più, continua ad esserci. Nei ricordi, nei racconti, nelle iniziative benefiche in memoria e in quelle immagini consegnate alla storia italiana, non ancora paga della tragedia della diga del Vajont dell’ottobre 1963, ci sono loro: gli scomparsi. E chi é rimasto non può, e non vuole, dimenticare una tragedia passata anche troppo presto sotto silenzio. Lo deve ai propri cari. E lo fa con estrema dignità e discrezione.

La storia è lì, da vedere: da quel primo bacino, è un susseguirsi interminabile di imprudenze, errori e negligenze, omissioni di controlli. Il processo di primo grado per la strage di Stava si svolge a Trento e si conclude nel 1988 con una condanna per 10 imputati, giudicati colpevoli dei reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo, dai responsabili della costruzione e della gestione del bacino superiore che crollò per primo ai responsabili del Distretto minerario della Provincia autonoma di Trento.

Il procedimento penale si conclude dopo altri 4 gradi di giudizio con la seconda sentenza della Corte di Cassazione, nel 1992, che conferma le condanne pronunciate in primo grado. Le pene di reclusione sono ridotte e condonate nel corso dei vari gradi di giudizio. Nessuno sconta la pena detentiva. Oggi una Fondazione, Stava 1985, ricorda ogni giorno quanto accaduto: una memoria attiva, perché la superficialità di pochi non diventi ancora una volta il dramma di molti. Memoria attiva come quella dei genitori di Paolo e Davide Disarò, Francesco e Giulia che, nel nome dei figli, aiutano altri giovani e sostengono la comunità cesanese da decenni.