Covid, cinque anni dopo Codogno: eredità e misteri

Era il 20 febbraio 2020 quando è apparso in Lombardia, un attimo dopo era a Monza e Brianza. Che cosa abbiamo imparato. E cosa no.
Covid coronavirus - credit Martina Santimone
Covid coronavirus – credit Martina Santimone

Le prime crepe cinque anni fa, di questi tempi. Di lì a poco tutto il mondo sarebbe stato travolto da un terremoto che avrebbe scardinato certezze e prospettive: il virus che “arrivava dalla Cina” stava per fare il suo ingresso in Italia, in Lombardia (a partire da Codogno, il 20 febbraio 2020) – e nella quotidianità di tutti.

Cinque anni che sono passati in un lampo e che, a ripensarci, ora che il lockdown e le restrizioni sanitarie sono un (poco piacevole) ricordo, sembrano confinati in un’altra dimensione. Eppure, e forse proprio per questo, abbassare la guardia sarebbe sbagliato. Non solo perché su quello che abbiamo familiarmente imparato a chiamare Covid ci sono ancora tanti aspetti da chiarire, ma anche perché il rischio di una nuova pandemia è possibile.

«Ma lo sappiamo, e abbiamo in mano tutti gli strumenti utili a prevenirlo»: Paolo Bonfanti, infettivologo, direttore della Struttura complessa di malattie infettive della Fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza, mette subito le cose in chiaro.

Covid, cinque anni dopo Codogno: il piano pandemico e le incognite

«Intanto, ed è fondamentale, possiamo contare su un nuovo Piano pandemico, aggiornato ed efficace. Poi dal 2023 è stato introdotto in Lombardia un sistema di sorveglianza per tutti i virus respiratori che arrivano nei pronto soccorso: se un paziente manifesta un’infezione alle vie aeree – spiega – viene inserito in un database che serve agli operatori e ai ricercatori per capire quali siano i virus respiratori in circolazione. Il bollettino, Influnews, viene pubblicato da Regione con cadenza settimanale e ci aiuta ad avere un quadro sempre aggiornato della situazione: sappiamo, ad esempio, che una piccola percentuale di virus in circolazione può avere origini sconosciute. Se, però, questa percentuale dovesse crescere, sarebbe sintomo che qualcosa non va».

Quanto al Covid, la situazione è rientrata nella normalità nel 2023, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato la fine della fase emergenziale. «L’anno scorso, di questo periodo, casi di Covid, per quanto poco numerosi, erano più diffusi rispetto a quelli di oggi. I pazienti ricoverati sono molto pochi e quasi mai da terapia intensiva. Detto questo, però ci sono ancora diversi aspetti che rendono il virus parzialmente misterioso: forse, tra altri cinque anni di studi, li avremo messi meglio a fuoco». Intanto «non è ancora chiaro perché abbia colpito i più anziani, soprattutto se fragili, e risparmiato i bambini: altre epidemie del passato, come l’influenza Spagnola, non guardavano in faccia nessuno». Un altro aspetto da indagare è perché, a parità di età e di condizioni di salute, «per alcuni si sia manifestato solo con qualche giorno di febbre, mentre per altri sia stata necessaria la rianimazione. Sicuramente dei fattori genetici protettivi, associati al tipo di risposta immunitaria, hanno fatto la differenza. Ma poi?».

Covid, cinque anni dopo Codogno: long Covid e disturbi invalidanti

Capitolo a parte quello delle sequele, vale a dire gli effetti del cosiddetto long Covid. «Ora abbiamo capito che il numero di persone affette da long Covid è molto più basso di quello inizialmente stimato, attestandosi su una percentuale che varia dall’1 al 5% dei pazienti. Ma presenta disturbi invalidanti anche chi ha avuto la malattia in forma leggera. Si tratta perlopiù di disturbi neuropsicologici o della sfera neurocognitiva, che vanno studiati: per questo è importante mettere a punto, e lo stiamo facendo con Regione, una mappa di centri di riferimento per approfondimenti e monitoraggi».