Panama Papers, ecco perché c’entra anche la Brianza

C’è anche un po’ di Brianza nello scandalo Panama papers, quella che è già stata definita la più grande fuga di notizie della storia finanziaria. In attesa di conoscere anche gli altri italiani presenti nella lista, tra quelli già noti spicca quello di Oscar Rovelli.
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panama papers Chiara Pederzoli

C’è anche un po’ di Brianza nello scandalo Panama papers, quella che è già stata definita la più grande fuga di notizie della storia finanziaria. In attesa di conoscere anche gli altri italiani presenti nella lista dei clienti dello studio Mossack e Fonseca di Panama (in tutto 800) tra i pochi nomi rivelati dall’Espresso nell’inchiesta curata dal “The international consortium of investigative journalists” spicca infatti, anche quello di Oscar Rovelli, figlio di Angelo (Nino) Rovelli, protagonista, negli anni 70 dell’industria chimica italiana con la Sir, azienda con sede anche a Macherio.
Farebbe capo a lui la Countryside group Ltd, società off shore, delle Seychelles il cui nome comparirebbe tra gli oltre 11 milioni di documenti che una fonte anonima ha passato alla Süddeutsche Zeitung e che il quotidiano tedesco ha girato a sua volta al consorzio di 300 giornalisti investigativi che ha controllato i dati in 76 Paesi.

Il precedente Imi Sir – Un sodalizio in relazione al quale Rovelli, tramite un suo legale, ha riferito all’Espresso (secondo quanto riportato dal settimanale) di «non avere ricordo alcuno». Essere presenti nella lista di per sé non è un reato. Le società off shore possono essere utilizzate, basta che vengano denunciate al fisco. È altrettanto chiaro, però, che il ricorso a questo tipo di società spesso e volentieri avviene quando si vogliono nascondere soldi per non pagare le tasse o perché frutto di riciclaggio. Come nella lista resa nota da Hervé Falciani, relativa a conti svizzeri in particolare riferibili alla banca HSBC, bisognerà condurre ulteriori accertamenti. Tenendo conto, tra l’altro, che sono scaduti i termini per la voluntary disclosure, che invitava gli italiani con soldi all’estero a regolarizzare la loro posizione. Certo, i precedenti di Oscar Rovelli non giocano a suo favore: insieme alle sorelle Rita e Angela è stato condannato dal Tribunale di Monza per il riciclaggio del risarcimento da mille miliardi di lire che una sentenza corrotta emessa nel 1994 dal giudice romano Vittorio Metta aveva riconosciuto all’azienda dei Rovelli. Un verdetto, che ha visto la condanna anche degli avvocati Giovanni Acampora e Cesare Previti, secondo il quale l’impresa acquisita nell’immediato dopoguerra da Nino Rovelli sarebbe fallita proprio a causa del mancato aiuto da parte di Imi, l’Istituto mobiliare italiano,allora banca pubblica. Quando nel corso delle indagini di Mani pulite la Procura di Milano aveva scoperto la corruzione in atti giudiziari ottenendo la condanna in Cassazione del giudice e dei suoi complici si è posto il problema di recuperare i soldi che l’Imi era stata inopinatamente costretta a pagare. Un’istanza in tal senso era stata avanzata da banca Sanpaolo, che nel frattempo aveva acquisito l’Imi, alla Procura della Repubblica di Monza, destinataria della richiesta a causa della residenza a Biassono di Primarosa Battistella, moglie di Nino e in quanto tale destinataria, almeno inizialmente, dei soldi lasciati dall’industriale andreottiano alla sua morte.

Caccia al tesoro – È stato così che il pubblico ministero Walter Mapelli, insieme alla Guardia di Finanza di Seregno, ha dato inizio alla più grande caccia al tesoro della storia giudiziaria italiana. Un tentativo che ha preso corpo quando a Francoforte, nell’ufficio di Pierfrancesco Munari, consulente dei Rovelli, sono stati trovati 90 faldoni che ricostruivano la dispersione in mille rivoli dei 670 miliardi di lire rimasti alla famiglia dopo aver pagato le tasse sui mille concessi dal Tribunale di Roma. Il danaro era stato piazzato in conti da due o tre milioni l’uno negli angoli più nascosti del mondo, da Singapore a Vanuatu, da Cipro all’isola di Labuan, sì, quella della Perla di salgariana memoria, coprotagonista delle avventure di Sandokan. A trattare il denaro erano banche come Mees Pearson, che faceva capo alla banca belga Fortis, ma anche lo studio legale Pacheco Coto, equivalente in Costarica, per il tipo di servizi offerti ai clienti, dei panamensi Mossack e Fonseca, o quello di New York targato Whithaker, ugualmente avvezzo a gestire grosse somme. Il sistema ideato da Munari, poi deceduto prima che si celebrasse il processo a Monza, si basava sulla costituzione di trust, un istituto attraverso il quale il proprietario dei beni ne affida la gestione a un amministratore, ai quali si conferiscono azioni al portatore di società con sede nei luoghi più lontani come Belize o Bahamas e comunque diversi dalle sedi dei trust.

A loro volta queste società risultavano proprietarie di altre società in Stati off shore come Cayman, Turk & Caicos o Antigua, che aprivano conti, gestiti da primarie banche d’affari, naturalmente in luoghi ancora diversi. Un sistema che la Procura di Monza è riuscita a smantellare costringendo i Rovelli a restituire i soldi.

Clarence Seedorf e le moto – Oltre a Rovelli nella vicenda sarebbe coinvolto anche un altro volto noto in Brianza: quel Clarence Seedorf che è stato proprietario del Monza calcio poi clamorosamente fallito con le proprietà successive. A citare il suo nome, però, non sono né L’Espresso , né i l consorzio dei giornalisti investigativi ma la stampa olandese. Secondo il quotidiano «Trouw» Seedorf undici anni or sono avrebbe siglato un accordo di sponsorizzazione con un gioielliere italiano per la sua squadra corse che ha partecipato al motomondiale 125. Un contratto che sarebbe passato di mano tra diverse società offshore. Ma anche questa resta una vicenda i cui esiti sono tutti da verificare.