Il medico di base di Monza: «Il Covid fa paura ma non vado in pensione, i pazienti hanno bisogno»

Daniele Arosio da dicembre rimanda la pensione e continua a farlo: da medico di base a Monza, non vuole lasciare i pazienti. «Ma il Covid fa paura»
Daniele Arosio, medico di famiglia a Monza
Daniele Arosio, medico di famiglia a Monza Fabrizio Radaelli

Daniele Arosio , 65 anni, è medico di medicina generale di lungo corso. Dal suo ambulatorio in via Beethoven, nel quartiere Cazzaniga, ha visto passare gli ultimi vent’anni del Novecento e i primi venti del nuovo millennio. A dicembre era pronto per andare in pensione, mai si sarebbe immaginato di farlo in piena pandemia. E infatti ha deciso che resterà al suo posto, almeno fino al mese di marzo, quando un giovane collega potrà partecipare al concorso dell’Ats , raccogliere il suo testimone e i suoi 1330 pazienti che altrimenti resterebbero scoperti: «Così i miei pazienti non avranno disagi -dice- sarò in pace con la mia coscienza».

Arosio non nasconde la sua paura: «Vivo male questa pandemia perché ho perso amici, colleghi e pazienti. È normale avere paura». Qualche giorno fa si è sottoposto ad un test sierologico, usando i kit distribuiti ai medici di famiglia dal sindacato : «Avevo assistito un paziente che è risultato positivo -spiega- volevo essere tranquillo per poter lavorare con serenità. Ho fatto il test anche a due colleghe che erano terrorizzate di essere state contagiate».

Tutto è cambiato nella sua professione in 40 anni: «Sono un dinosauro -scherza- ho iniziato con lo stetoscopio, le schede cartacee, a visitare palpando la pancia per rendermi conto se qualcosa non andava. Tac, ecografie, esami specialistici sono arrivati dopo, così come tutti i mezzi informatici che io maneggio male. Ho sempre basato la mia professione su un rapporto interpersonale forte, franco, schietto. Ho pazienti che conosco da 35 anni, c’è un legame forte».

Anche in questi giorni di pandemia Arosio continua ad andare a casa dei pazienti più fragili e a ricevere altri su appuntamento in ambulatorio. Alcune visite e consulenze si sono spostate a distanza, la sua segretaria lavora ora a tempo pieno, i vaccini li ha programmati alle 7,30 del mattino e dopo le 8 di sera». Sulla proposta di effettuare i test sierologici negli ambulatori non nasconde le sue perplessità: «Significa far entrare in ambulatorio persone potenzialmente positive -spiega- e rallentare molto il resto dell’attività perché tra il tempo di attesa del responso e la disinfezione ci vorrebbe un’ora per paziente in un periodo già carico». Lunedì ha accettato di aderire al progetto dell’Ats: «Sarà una cooperativa a gestire i test rapidi in un’area specifica (lo Sport Park di Vedano inv ia Alfieri, che ha aperto, ndr), io farò da tramite, prescrivendo il test se lo ritengo necessario e prendendo l’appuntamento per il paziente».

Approva il modello hotspot: «Anche se sarebbe bastato avere una linea telefonica dedicata con gli specialisti delle malattie infettive o della pneumologia del San Gerardo-dice- per avere un consiglio utile nel trattamento dei pazienti Covid a domicilio. In questo momento la nostra figura è essenziale, sono saltati i tracciamenti, ma sono io a dire alle persone come fare la quarantena».

La sua preoccupazione più grande in questa fase in cui i nostri ospedali collassano è per i pazienti affetti da altre patologie: «L’altro giorno è stata la mia segretaria a segnalarmi una macchia sospetta sul viso di un paziente -dice- l’ha notata perché per un attimo ha abbassato la mascherina. È un tumore, ho preparato immediatamente impegnativa d’urgenza, mi sono attaccato al telefono per trovare il modo di farlo operare al più presto, ma Monza ha chiuso le sale operatorie. Mi hanno rinviato a Milano all’Istituto dei Tumori o all’Istituto Oncologico Europeo. Ho chiesto ai nipoti del paziente di attaccarsi al telefono per avere un appuntamento».