Seveso – «Innanzitutto sono importanti i controlli, ma assolutamente senza panico. A Seveso la diossina ha avuto effetti meno tossici, di quanto si pensasse all’inizio». Così parla Paolo Mocarelli, settant’anni, docente di Biochimica clinica di laboratorio alla facoltà di Milano Bicocca e ancora talmente legato dall’incidente del 1976, che gratuitamente prosegue nelle ricerche all’ospedale di Desio. In questi giorni si stanno contattando novecento donne, che all’epoca del disastro avevano tra uno e quarant’anni. Naturale fare a lui alcune domande sulla recente ricerca della “Fondazione Irccs Ospedale Maggiore Policlinico Mangiagalli e Regina Elena” pubblicata sulle pagine di “Environmental Health”.
Cosa ne pensa dei risultati?
«Non sono stupito. Questo studio non è altro che la conferma di risultati di studi precedenti, c’è solo un leggero aumento di casi tumorali. La diossina fra le tante azioni, ha anche quella di sostanza cancerogena. In lavori precedenti da me seguiti, avevamo già evidenziato un aumento di tumori come leucemie o della mammella. L’aggiornamento conferma questo. Noi oltretutto continuiamo a studiare le donne presenti a Seveso al momento dell’incidente».
Nella nuova ricerca però c’è un passaggio che colpisce: si parla di rischio anche per chi è arrivato in città dopo l’incidente. Cosa ne pensa?
«Di questo passaggio non se sono a conoscenza, bisognerebbe chiederlo ai ricercatori, d’altro canto dire qualcosa sul dopo incidente, è difficile. Col passare degli anni il rischio da esposizione diventa sempre più basso».
Il sindaco, Massimo Donati, invita a coinvolgere i medici di base. Cosa ne pensa?
«È una proposta interessante, ma senza agitarli troppo. La gente deve sapere che non c’è una terapia per la diossina, la cosa più importante è il controllo».
A tal proposito il combattivo Gaetano Carro ha riproposto l’apertura di un poliambulatorio per le diagnosi precoci. Per lei ha senso?
«Era una cosa di cui si parlava vent’anni fa e non è mai stata approvata. Un poliambulatorio ha dei costi, per carità la vita non ha prezzo, ma comunque le persone più a rischio possono sempre fare riferimento a noi. Non ci siamo mai fermati nel monitoraggio. Anch’io, che sono in pensione, continuo a sostenere volontariamente il progetto di ricerca. Siamo un riferimento importante, che permette di dire cosa fa la diossina all’uomo. In questi giorni stiamo chiamando 900 donne, che sappiamo essere state certamente esposte al disastro Icmesa e che nel 1976 avevano tra uno e quarant’anni. Le abbiamo controllate dieci anni fa e già allora si era visto un leggero aumento del tumore alla mammella, mentre dal fronte maschile i dati parlano di problemi al sistema riproduttivo, una ricerca che abbiamo pubblicato il gennaio dello scorso anno».
Mocarelli sono passati trentatrè anni, non è ancora stanco di seguire il caso diossina?
«No. Tutto è iniziato domenica 25 luglio del 1976. La mattina eravamo pronti con 600 prelievi. Da subito decisi di tenere quelle provette, per comprendere appieno gli effetti dell’esposizione da diossina. La gente era infuriata con noi, quasi che la diossina fosse colpa nostra».
Cristina Marzorati