Monza – Forse bella, certo insolente, senza dubbio insofferente alla regola e all’obbedienza: doveva morire. Non perché non rispettava l’abito, o perché non c’era di che fare abitudine a quella vita claustrale. Aveva visto troppo, e la sua bocca non sembrava dimenticare. Caterina doveva morire. Era la notte del 23 luglio, 405 anni fa: il 1606. La notte in cui il più grande scandalo della storia di Monza è iniziato. Pochi giorni dopo di Caterina da Meda non sarebbero rimasti che un corpo seppellito a brani in fretta e furia chissà dove e una testa gettata in un pozzo.
Il pozzone, lo chiamavano, ed era distante, a Velate, dalla parte opposta da quella che era già Brianza. Erano le terre degli Osio, feudatari di Usmate – Oeus, in dialetto: Gian Paolo e la sua famiglia, lì, erano semplicemente i padroni. E quel pozzo era un abbisso di trentatré braccia in cui seppellire quanto restava dei suoi delitti e della sua furia. La sua e quella di suor Virginia Maria, nata Marianna de Leyva, la Signora per i suoi contemporanei, la monaca di Monza per tutti dal 1800 in poi. Se tutto è stato è perché ha una data: il 23 luglio del 1606, quattro secoli e cinque anni fa, tra due giorni.
“Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi” scrive Manzoni nel decimo capitolo dei Promessi sposi, perché sa e non dice, lo scrittore: sa che quella notte di luglio dell’alba del diciassettesimo secolo Marianna ha mandato a morte Caterina, la conversa. Erano passati quindici anni dal giorno in cui aveva detto sì ai voti. Lei, suor Benedetta Homati e suor Ottavia Ricci: le sorelle con cui avrebbe condiviso tutto, fino in fondo.
Marianna de Leyva aveva sedici anni ed era stata cacciata in convento a forza di paura, arroganza, intimidazioni. Suo padre Martino, conte feudutario di Monza, voleva quel poco di ricchezza che gli restava per il figlio. E Marianna, se era stata battezzata con quel nome, nei fatti si chiamava dalla nascita suor Virginia: in un convento non sarebbe servita una dote, se non quella che il padre fece comunque fatica a versare alle casse di Santa Margherita, sulle rive del Lambro. Ne resta poco, di quelle quattro mura, salvo una porta d’ingresso a sinistra della facciata della chiesa di San Maurizio e la descrizione coeva nella Historia patriae di Giuseppe Ripamonti.
Tetro, dice lo storico, uggioso, profondamente malinconico. Dove Virginia, Benedetta e Ottavia pronunciano i voti il 12 settembre del 1591. Gian Paolo Osio abita a fianco di quelle mura malinconiche. Benestante, sbruffone, il coltello facile e probabilmente l’incosciente certezza di poter regolare i conti con una lama e farla franca. Bravate, dicono oggi, quelle dei bravi: sono quelli di Manzoni. L’aveva visto e ammonito, suor Virginia, un giorno in cui si era messo a parlare con una sorella di Santa Margherita. Alla larga da qui. Una denuncia per il sospetto che c’entrasse qualcosa con la morte di un ispettore fiscale, dodici mesi lontano.
Ma un anno dopo quel 1597 lui è ancora lì a guardarla dietro le grate di clausura. E allora cambia. Le lettere, poi le parole, quindi i regali. Nonostante tutto la relazione tra il conte e la Signora diventa reale ed è sulla bocca del convento, prima, della città, in un secondo momento. Benedetta e Ottavia sono le testimoni di quella passione ormai non più mascherata: in un letto loro due, nell’altro gli amanti, la stessa stanza. Osio ha ottenuto una chiave e l’ha affidata a un fabbro.
Cinquanta copie, perché gli scrupoli o la coscienza di suor Virginia non lo chiudano fuori dal convento. Resta incinta, Marianna de Leyva, e partorisce un neonato morto. È il primo. L’8 agosto de l604 la Signora dà alla luce Alma Maria, riconosciuta da Osio quasi due anni dopo. Il convento sa. Il convento sa e la tensione cresce. I fantasmi della loro relazione sono ovunque e quando Caterina da Meda si lascia scappare che le basterebbe una parola, quella parola non ancora pronunciata le risulta fatale. Suor Ottavia, suor Benedetta e suor Virginia la fanno rinchiudere nella cella riservata alle punizioni.
Ma hanno già deciso. Fannno entrare Osio e lui, racconteranno al processo, scarica sulla testa di Caterina uno, due, tre colpi di bastone. È morta. Il corpo finisce in casa di Gian Paolo Osio e da lì chissà dove. In una neviera, raccontano le cronache: fatto a pezzi e divorato dal tempo. Un buco nel muro di cinta del convento lascerà intendere che se n’era andata. “In Olanda” scrive Manzoni inventandosi una voce che forse era stata anche vera due secoli prima.
Ma a lei, Marianna, “l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella mente”. Saranno solo una tregua illusoria, quel delitto e quello spettro. La relazione tra la Signora e il conte a Monza è voce che corre e lui, Osio, crede che l’unica via di uscita sia mettere a tacere, definitivamente, chi sa. Lo ha fatto una volta, lo farà ancora. Tenta di uccidere Rainero Roncino, il farmacista che aveva pestato per loro in un mortaio qualche alchimia abortiva. Elimina il fabbro, quello che aveva copiato per lui le chiavi del convento. Ma c’è troppa gente che parla, a Monza. E Osio finisce in carcere.
Quando ne esce un anno dopo la sua rabbia ha ancora sete: Roncino finisce sotto un colpo di archibugio di Camillo il Rosso, che è la mano del conte di Usmate, nella casa del sacerdote Paolo Arrigone – che aveva fatto da tramite tra gli amanti – viene trovata una pistola non sua che lo condanna al carcere. È troppo per tutti. Sanno a Monza, sanno a Milano. E arrivano per portare via suor Virginia.
Osio perde la testa. Si nasconde, convince suor Ottavia e suor Benedetta a scappare con lui mentre l’amante sta per andare a processo. Se lui ha colpa, loro non ne hanno meno, dice loro. E rispondono di sì, sventurate quanto lui, quanto Marianna. La seconda sopravviverà quel poco che basta per testimoniare al processo, dopo essere stata quasi annegata e poi finita con il calcio di un archibugio nelle acque del Lambro. La seconda spinta nel pozzone di Velate, quando ormai si sentiva, se non al sicuro, un po’ al riparo dalla mano della giustizia, in fuga con Gian Paolo Osio per il quale forse – per qualche ora – aveva pensato di sostituire suor Virginia. Un colpo secco delle mani sul torace, mentre sedeva sulla bocca del pozzo, un volo di trentatré braccia.
Non muore lei, non era morta suor Benedetta. Quando la mattina dopo gli uomini del posto trovano prima la sorella e poi lei che chiamava aiuto dall’abisso di Velate, è l’ultimo atto di un anno sanguinario. È il 30 novembre del 1607. Con suor Ottavia tirano fuori dal pozzone una testa, bionda, in avanzato stato di decomposizione. Quel che resta della conversa che aveva visto troppo, e la cui bocca non dimenticava. Caterina da Meda era quello che Marianna de Leyva sarebbe voluta essere: forse bella, certo insolente, senza dubbio insofferente alla regola e all’obbedienza e magari capace di dire no, quel giorno che bambina l’avevano chiusa a Santa Margherita a Monza.
Massimiliano Rossin