Testo immortale e tirato a maglie strette, fitto e cristallizzato nella sua musica, la Medea di Euripide non permette spazio e movimento di confronto convenzionale: né per modificarne le istanze più intestine – i tasselli di tradizione atavica del significante, la scala di sapore metafisico dei significati, l’arcobaleno di sangue che intreccia forma e contenuti nella prosa poi rappresentata – né per trasfigurarne le superfici visive – l’armatura della scena, l’aspetto delle immagini e dei corridoi che per impulso visivo si fanno strada tra le pareti cerebrali.
Le prospettive di una modifica del testo tragico fanno senso ai più conservatori e a quelli che recalcitrano davanti alle forme di modernariato scenografico, trovano terra inferma anche tra i più accaniti sostenitori dell’ermeneutica e di certo non contemplano le possibilità di una visione nuova che non sia almeno coraggiosa e ribelle, devastata, devastante e molto poco interessata a una pedissequa apologia del testo. Trovano parentesi fertile, membrane permeabili solo in alcune eccellenze performative, rinfocolate da una passione sacrale scioccante per il testo e un’audacia mostruosa, frutto maturo e succoso di intuizioni da antologia che durano e trovano senso solo nel loro presente, forse addirittura solo nel momento ambiguo, personale e irriproducibile della rappresentazione dal vivo.
Per questo la Medea interpretata da Branciaroli, riproposizione della celeberrima Medea di Ronconi, non ha senso logico: è riproduzione dell’eccellente irriproducibilità, fermo immagine di un fiume di segni inafferrabili, gabbia che cerca di dominare ciò che è già per natura indomito e, in ultima analisi, esercizio teatrale inutile, arido e incentrato prima su un copia e incolla di forme mascherato da omaggio e poi sulla soluzione apparentemente funzionale e brillante ma in verità ambigua di un attore che interpreta (come nella realtà del quinto secolo avanti Cristo) un uomo che interpreta una donna: cortocircuito che dovrebbe aggiungere nuove sfumature interpretative a uno dei più grandi testi sulla femminilità e che invece impasta la rappresentazione con la personalità ingombrante di Branciaroli e distrae lo spettatore dai nuclei tematici.
La sua presenza, la sua mascolinità tossica, l’ondulazione montuosa della voce sovraccaricano il lirismo della tragedia fraintendendone la forza e dimenticando la raffinatezza, l’eleganza del sentimento sotteso di cui la tragedia è non solo emblema ma anche rappresentazione in movimento: disamina degli universi più intimi e delle intimità più universali, di una figura di donna tremenda, magica e terrorizzante, di un crimine umano che si impone sugli spettatori come una mano soffocante, di sentimenti e fantasmi che prendono forma dalla paura, dalla rabbia e dall’incomprensione del diverso. Ma la versione ripresa dalla regia di Daniele Slavo paga una drammaturgia sfibrata, stanca e soporifera che è stampo di un prodotto che nel 1996 fece clamore e oggi può solo essere ricordato come una irrecuperabile oggetto museale. Che fa venir voglia di correre a comprare il testo, per rifar combaciare le intimità alle intimità e riscoprire la vera forza solare di Medea.
Medea
Con Franco Branciaroli, regia di Luca Ronconi, ripresa di Daniele Salvo (Coproduzione: Centro Teatrale Bresciano, Teatro de Gli Incamminati, Piccolo Teatro di Milano)