Lou Reed, i giornalisti, il prosciutto Un perfect day oltre New York

Claudia Ratti è monzese e si occupa di press office. Ufficio stampa. Di quelle brave, che sanno cosa vogliono e sanno come ottenerlo. Gestendo situazioni spesso delicate. Come quella volta che... già. Come quella volta che ha gestito una mostra di fotografie di Lou Reed, il musicista newyorkese morto lo scorso 27 ottobre.

Claudia Ratti è monzese e si occupa di press office. Ufficio stampa. Di quelle brave, che sanno cosa vogliono e sanno come ottenerlo. Gestendo situazioni spesso delicate. Come quella volta che… già. Come quella volta che ha gestito una mostra di fotografie di Lou Reed, il musicista newyorkese morto il 27 ottobre. Uno spigoloso. Con qualcuno. Ma non con tutti. Lo racconta al Cittadino. Rivelando un suo volto più intimo. Il press office è lei . E questa è la sua storia.

Il perfect day è da gustare a notte fonda, sul bordo dell’alba, dell’Hudson, dell’oscurità, delle presenze umane. Laggiù lo skyline di una amatissima New York, quella lì, che non puoi quasi mai fotografare in assenza di persone, se non nel momento perfetto del limitare, fra gli ancora e i già, se li distingui. Scorci inconsueti, poetica oscura, palazzi e grattacieli e angoli e marciapiedi e nebbie e fari di auto in corsa seguiti dall’occhio del fotografo.

È il 2007. Sono le opere fotografiche di grande formato esposte sui muri di una galleria, a raccontare tutto questo. La mostra è “Lou Reed’s New York”. La “sua” NY, amata, guardata, vissuta, perché il mostro sacro del rock, quello della camminata on the wild side, sta dentro a quel cuore di Velvet e Warhol e Laurie e Hudson River e di avanguardie in cui tutto pulsa, la musica come l’arte e la fotografia. Lou Reed non viene a Milano per suonare. Questa volta c’è il Photoshow e lui sbarca qui dalla grande mela per presentare alla Galleria Arteutopia le sue fotografie. Tu sei il press office di quella sede, e presto le tue giornate si riempiono di richieste di anteprima, di tuo diplomatico negare, di silenzio educato in risposta alle strafulminanti maledizioni dei delusi.

Bisogna attendere la conferenza. Ci serve il consueto virgolettato, e Lou Reed ne fa arrivare uno in cui racconta la «bellezza che ha impressionato l’animo di questo osservatore, fermo sul bordo del fiume con una scatola in mano, cercando di cogliere lo spessore illuminante del tempo». No, non servirebbe altro, c’è già tutto, ma scriviamogli intorno un comunicato per il perfect day. Per un press office il perfect day è meno poetico di quello del brano: che nulla vada storto, c’è Lou Reed in piumino arancione – che non toglie per tutta la durata della conferenza -, c’è tutta la stampa possibile e all’opening serale sono attesi esponenti del mondo musicale e culturale italiano.

Accade che nel lussuoso palazzo di corso Venezia tg e giornalisti siano accalcati in sala conferenze in attesa di lui, e che tu abbia con te una lista ordinata con i nomi accreditati degli esponenti della stampa top, costruita mescolando il sangue col sudore come fa Fossati con l’amore: ogni valido accreditato ha un suo spazio nella saletta segreta, pochi minuti concordati. Ma sì, è burbero, bene questi, via altri, in una lista già super-selezionata. Basta solo che tu esca ed affronti in corridoio, con un no stampato in volto, i cancellati (blasonati), invitandoli ad accomodarsi insieme agli altri in sala conferenze. Star system e stampa: senza tensioni non può essere. Eppure tutto fila, l’equilibrio è più potente della tensione, la tensione è “già” un equilibrio. E catering. Troppo lussuosi per poter disporre di generi alimentari semplici, adatti ai gusti di un re del rock che proprio non si può immaginare a centellinare praline e patisserie mignon. Men che meno raw ham: Lou Reed vorrebbe quell’altro, e il press office (oltretutto vegetariano) spera che il catering lussuoso risolva. Ma il catering è appunto lussuoso e si risolve così senza farla lunga: un giro con un piatto vuoto in mano al bar di sotto, chiedendo «fette di cotto con una certa celerità. È per Lou Reed».

Risata del barista. Se avesse saputo che era vero… E poi auto, telefono, messaggi, pronti da Arteutopia per l’opening. In galleria insieme all’organizzatore Luigi Pedrazzi c’è Guido Harari, per Lou Reed sodale amico di sempre e non soltanto fotografo di fiducia. Se c’è Guido tutto andrà bene. Due mondi separati dal vetro della galleria. Fuori fan a migliaia, accalcati nella strada, le luci blu delle forze dell’ordine, giornalisti disertori della mattina, che si fanno strada in quel fiume di vecchi e nuovi ragazzi muniti di cellulari per fotografare dall’esterno. Dentro, gli invitati selezionati e i giornalisti amici, ma più tardi nel pomeriggio si aprirà al pubblico, un numero preciso di persone per volta e non uno di più fino a che non saranno usciti i precedenti. Zaccagnini, chiambrettiano Santo Subito, lo accompagna al desk, ore di firme e dediche su libri, dischi, stampe in scala minore delle foto esposte. Collezionisti che chiedono e si informano, affascinati dalle fotografie.

Ma no che non è burbero. Riceve tutti, ascolta tutti. Le dieci di sera. No che non è burbero. Perché prima di andarsene mostra di aver visto e apprezzato tutto il nostro lavoro. «Grazie per aver contenuto i giornalisti senza fare morti né feriti». In tanti anni non c’è quasi mai stato un artista giovane o emergente che abbia ringraziato il press office: si sentono spesso così importanti e arrivati da non reputarlo necessario. O, se non altro, ben educato.