Le “Note di infinito”: monsignor Viganò e la musica in sette interviste

Sette note, sette interviste: in anteprima quella al violinista Davide Monti in uscita nel volume delle Edizioni San Paolo il 10 ottobre.
Davide Monti
Davide Monti Zachary Photography

“Artisti che ci regalano armonia, bellezza, emozioni. Creativi che ci danno la carica ogni giorno, oppure che ci fanno sognare, innamorare, gioire e sperare”: presentano così le Edizioni San Paolo il nuovo libro di Dario Edoardo Viganò, monsignore a lungo in Brianza e oggi vice cancelliere della Pontificia accademia delle scienze e delle scienze sociali. Si tratta di “Musica, note di infinito” (92 pagine, 10 euro), con sottotitolo “I grandi della musica si raccontano”, una raccolta di interviste in uscita il 10 ottobre (Clementino, Gigi D’Alessio, Leonardo De Amicis, Roby Facchinetti, Daniele Gatti, Davide Monti, Alessandro Quarta, prefazione di Riccardo Cocciante). Presentiamo in anteprima quella al violinista (brianzolo) Davide Monti.


Un violinista in grado di unire energia e talento con il risultato di una espressività naturale. Davide Monti è un artista a tutto tondo:direttore, solista, spalla e musicista da camera. La critica gli ha riconosciuto “un’incredibile freschezza” dove “tutto appare straordinariamente spontaneo e organico”.

«Mi hanno nutrito a pane e creatività», racconta. Tra le sue registrazioni premiate c’è una versione delle Quattro Stagioni di Vivaldi. Del resto, la formazione di Monti è completa e di lunga data: dopo i diplomi presso i Conservatori di Parma e Verona, si è dedicato alla continua ricerca nella prassi storica fino a emergere nel panorama musicale. Ha collaborato con diversi insiemi: l’Orchestra Barocca dell’Unione Europea, Il Tempio Armonico, il Complesso Barocco, English Touring Opera, il gruppo australiano Accademia Arcadia, Les Épopées, la Kore Orchestra e tante altre realtà, fino a dirigere, nel 2014, il gruppo Tafelmusik di Toronto e nel 2018 l’orchestra da camera Camerata Brisbane.

Monsignor Dario Viganò
Monsignor Dario Viganò

Il suo è un cammino artistico di sperimentazione e verifica dell’evoluzione dell’idea di spartito come “canovaccio”. Riflessivo e introspettivo, ha dato vita ad Arparla, il duo italoirlandese fondato insieme alla moglie arpista Maria Christina Cleary, che annovera incisioni di musiche di Louis Spohr per violino e arpa, e Le Grazie del Violino, un excursus tra le sonate più belle del XVII secolo. Inoltre, incisioni con musiche di don Marco Uccellini, un importante compositore della metà del XVII secolo.

Da dove nasce la sua passione per la musica?

Non è una passione. È il pane quotidiano. Non posso farne a meno. Ne ho mangiato fin da piccolo e continuo a mangiarne perché entra ed esce da me come l’aria che respiro. E molto di questo lo devo alla sensibilità della mia famiglia e alle occasioni della mia adolescenza, che mi hanno nutrito a pane e creatività. Suonare con mio padre, in famiglia, agli scout, con i primi gruppetti pop, è stata la maniera naturale con cui ho intuito un modo diverso di comunicare.

C’è un ricordo in particolare che le è rimasto in mente?

Tra i ricordi della mia infanzia musicale ci sono due LP di musica classica divertente e adatta anche ai bambini, con brani come L’Histoire du Soldat di Stravinskij. Accanto a questi ci sono le canzoni di Gipo Farassino, che mio padre intonava con la fisarmonica e che ravvivavano le serate in famiglia, e le improvvisazioni che mio padre faceva quotidianamente, accompagnando i miei studi giovanili con il violino che mio nonno mi regalò a quattro anni. Ancora oggi uso quel violino in qualche occasione speciale, avendolo trasformato in “violino piccolo”, adatto all’esecuzione di certi brani di musica antica. Poi la chitarra e gli studi di piano, esplorando altre dimensioni, tra Margherita e Il Gatto e la Volpe, e la ricerca ad orecchio degli assolo di Mark Knopfler o dei Supertramp. E così come riproducevo un assolo alla chitarra o al piano, ugualmente trascrivevo a orecchio musica classica, affascinato da brani come il Madrigalesco di Vivaldi o la Sonata di Telemann in Mi minore per oboe violino e basso continuo.

Tutto è partito da un violino…

Poco per volta le mie dita sul violino hanno iniziato a muoversi con più agio. Questo grazie agli studi al liceo musicale di Monza, ma anche a esperienze di tipo “play along” suonando le Sonate di Bach per violino e cembalo con lo stereo a tutto volume assieme ad Alice Harnoncourt, oppure le animazioni di serate con le danze popolari che il violino mi permetteva di insegnare (come facevano i “Maître de Ballet” alla corte di Luigi XIV), oppure le improvvisazioni sui canti che facevamo agli scout. Mi sono nutrito di tanta musica diversa fin da giovane e sicuramente mi ha aiutato ad aprire i miei orizzonti e bilanciare quello che in tempi recenti chiamo equilibrio tra parte emotiva e razionale. Non sono voluto andare al Conservatorio fino a tempi molto più maturi. Potrebbe sembrare strano, ma da ragazzo l’idea che mi ero fatto era che al conservatorio ci fossero coloro che facevano le gare di velocità, e che volevano arrivare primi, e io invece volevo divertirmi con la musica. Mi sono preso tutto il tempo necessario per studiare e crescere e tutto questo mi ha condotto a maturare mie scelte di estetica musicale, a trovare il mio suono, e professionalmente ad approdare alla musica antica e all’improvvisazione.

Potremmo dire in termini cristiani, che ha vissuto una chiamata, un tocco delle corde interiori che l’hanno condotta su una determinata via? Cosa ha scoperto nella musica antica che l’ha portata a realizzare se stesso?

Musica, note di infinito
Edizioni San
Paolo 2023, pp.92, euro 10,00
Musica, note di infinito (Edizioni San Paolo, 2023, 92 pagine, 10 euro)

Beh, prima di tutto la sensazione di libertà e creatività. La stampa antica, a differenza della parte moderna, lascia spazio all’esecutore di cercare, intuire e formulare interpretazioni, e di decorare il pensiero di un compositore, proprio grazie al fatto che non è precisa ed è più simbolica. Con lo scorrere del tempo, la modernità ha prediletto invece definire il sapere e aggiungere sempre più dettagli per stabilire sempre meglio come doveva essere eseguita una parte. Anche le partiture musicali seguono questo percorso. Tutto viene definito nei minimi particolari: l’arcata, la diteggiatura, gli accenti, il tempo, le dinamiche… Io avevo bisogno di sperimentare. E la giovinezza è il tempo della sperimentazione. La musica antica mi ha dato quello spazio. Mi ha posto le domande: “Cosa vuoi fare di queste note?”, “Come le vuoi fare?”. E poco per volta mi ha chiesto: “Cosa significano?”. In qualche maniera si potrebbe dire che la libertà mi ha restituito responsabilità.

Una ricerca continua?

L’improvvisazione è stato lo strumento, “l’esca educativa” che mi ha permesso di cercare. Ma certamente non è solo questo. Ovviamente la ricerca storica accanto alla ricerca interiore sono sempre state il fondamento su cui costruire tutto il resto, e da qui con mia moglie Maria, arpista, abbiamo preso il volo per esplorare tanti territori che sono diventati la nostra cifra espressiva. Quanta soddisfazione c’è nell’affrontare lo spazio che sta dietrole note scritte in brani come le Sonate sui Misteri del Rosario di Biber (composte intorno al 1670)! E poi tanti progetti, legati a luoghi speciali, come il castello di Kroměříž in Repubblica Ceca, l’abbazia di Vezzolano, vicino a Chivasso, dove abbiamo registrato alcuni brani, oppure viaggi musicali in giro per il mondo.

Ricordi indimenticabili?

Parlo di prime volte perché conservano in sé alcuni ricordi speciali, ma di chilometri continuiamo a farne parecchi e i ricordi si accumulano. Non abbiamo trovato la nostra strada, ma in effetti ne abbiamo trovate tante! Del resto, anche nell’epoca barocca i musicisti viaggiavano molto e tra l’altro molti italiani sono diventati maestri di cappella in corti europee! Il Made in Italy piaceva già allora! Credo che una delle cose che viene apprezzata all’estero sia proprio il lavoro sull’improvvisazione e sulla libertà espressiva.

Pensa che il mondo abbia bisogno di improvvisazione oggi?

Indubbiamente: la società di oggi è così intrisa di protocolli e di regole che non vi è spazio per l’espressione creativa, perché rischia di andare fuori dai canoni. Se poi si sceglie di uscire dagli schemi, l’obbiettivo sembra essere quello di essere trasgressivi e originali a tutti i costi, e a volte violenti. Ma questo forse non è sempre buon gusto. Ma per avere buon gusto bisogna educarlo. E per educarlo bisogna permettere di fare errori per poter imparare. Per me tutto questo è insito nell’improvvisazione: è un processo di scoperta che sviluppa la capacità di sapersela cavare sul momento, trovando soluzioni insieme stravaganti e rispettose, di rottura ma comprensibili, di impatto esteriore e di ricerca interiore. In musica, per esempio, potrebbe voler dire saper mettere le note corrette che stanno in quell’armonia, ma il buon gusto è la carta che rende quell’azione speciale, la nota giusta al posto giusto, bilanciata nel suo contesto, rispettosa delle altre note, ma anche rivoluzionaria nella sua proiezione al futuro. Anche in questo la ricerca storica ci dà molti spunti.

Però delle evoluzioni storiche ci sono state.

Certo, a tal punto, però, che a volte non ricordiamo più da dove siamo partiti. Credo che il problema fondamentale stia nella relazione tra contenuto e forma. Oggi siamo preoccupati che tutto sia perfetto, che segua i canoni, che la forma sia corretta. Ma ci dimentichiamo che per arrivare a oggi l’uomo ha fatto molta strada, ha provato molte soluzioni in cui ha guadagnato qualcosa e ha perso qualcos’altro. Per esempio, accanto alla conquista della tecnologia abbiamo perso l’uso della memoria e dell’orientamento. Quindi la competenza accademica ai giorni nostri può essere estremamente ricca, ma se io non ho il senso della misura, rischio di debordare e le mie scelte non saranno di buon gusto. Quindi, per esempio, gli stimoli che il Rinascimento mi propone sono un’occasione per allenare il mio corpo ad avere il senso della misura: per questo motivo la storia mi aiuta a riappropriarmi di cose che i tempi nostri hanno perduto.

Qual è la sua relazione con gli errori? L’improvvisatore è sempre sul filo del rasoio?

Certamente sì, è sul filo del rasoio, e “il rischio è il mio mestiere”. Confesso che c’è anche molta emozione nell’atto di improvvisare. Fare errori è un processo indispensabile per imparare, per organizzare il proprio corpo, per crearsi modelli, per cercare soluzioni, per inventare nuove idee, che spesso nascono proprio dall’errore! In musica jazz si parla di Blue Note, che spesso capitano per caso e diventano la caratteristica del pezzo.

Sbagliando si impara e si diventa più saggi?

Se non facciamo errori, non possiamo consolidare la nostra saggezza. Se siamo preoccupati di non fare errori, non apriamo porte nuove, non sperimentiamo e ci appiattiremo sempre più. Accettare gli errori aiuta a perdonarci, con gli altri, e anche noi stessi, sapendo che non esiste la perfezione formale assoluta e che la cosa più bella che possiamo essere è essere noi stessi.

Allora c’è spazio nei nostri sistemi educativi per l’errore e per il perdono?

Dobbiamo allenarci a non avere l’ossessione del controllo. Il controllo numerico non lascia spazio al sogno, alla relazione, all’amore, perché tutto viene valutato in relazione alla convenienza, economica e di tempo. Non sto rinnegando il progresso, ma il problema è la mancanza di equilibrio tra razionalità ed emotività, tra scienza e sogno, tra monetizzazione e gratuità. Come è bene accettare l’errore, è bene accettare anche la sofferenza, come strumento di crescita. Evidentemente sono argomenti delicati che trascendono anche la mia comprensione totale… A un certo punto mi guida solo un’intuizione.

E in questo la fede che ruolo ha?

Ricordo una domenica in cui il Vangelo parlava del cieco nato e della sofferenza al servizio del disegno di Dio. Non è facile accettare questo discorso, specialmente quando arriva la disgrazia, abituati a un mondo pieno di comodità, medicine e cure per la tantissime malattie con possibilità che i nostri genitori si potevano solo sognare. Ma credo che questa sia la grande rivoluzione che dovremo affrontare a breve. Per me la fede significa non farmi prendere dalla tentazione che non ci sia speranza per il mondo a causa della sofferenza. Per me credere significa essere disponibili alla conversione, a fare la propria rivoluzione interiore, affrontando la fatica e la sofferenza come occasioni per avanzare nella consapevolezza, e magari aiutare gli altri a fare lo stesso.

Ed è quello che cerco di fare nei miei corsi. In pratica insegno improvvisazione con un approccio storico e multidisciplinare. Attraverso questo percorso si educa all’errore, all’ascolto, all’uso del proprio corpo, al problem solving, alla ricerca del buon gusto; il tutto ovviamente in un ambiente dedicato alla bellezza e ricchezza che la musica offre. Soprattutto cerco di insegnare che, nell’equilibrio tra contenuto e forma, è fondamentale lavorare sulla vera relazione. Ed anche in questo caso per me il Vangelo è rivoluzionario e molto attuale.