Davide Passoni. Anzi, Davide Scarty Doc Passoni. A vederli su un palco di un qualsiasi poetry slam, si capisce: è questione aperta tra lui e Paolo Agrati. E infatti il secondo è stato campione lombardo di poesia a voce alta lo scorso anno, nella prima edizione del campionato nazionale. Lui ( a destra nella foto) ha vinto quest’anno. Vimercatese, tra le tante cose bagnino, ha vinto l’edizione regionale del 2015 e a luglio si è giocato le finali nazionali. Lui è il punto di confine: dove c’è il rap, che fa negli Eell Shous, e c’è la poesia. Una tangente impercettibile. Che pure esiste.
Rap, hip hop, poesia: qual è il confine per te tra l’uno e l’altra, sempre che ci sia?
Credo che ci siano delle differenze, ma non dei confini. Innanzitutto è bene precisare che il termine hip hop fa riferimento ad un movimento artistico che si estende alla quotidianità, diventando così un vero e proprio stile di vita; per alcuni è un secondo credo, se non il primo. Con hip hop non si intende un genere musicale, bensì lo spirito con cui si svolgono determinate attività artistiche. Una delle discipline dell’hip hop è l’mcing, da master of ceremony, ovvero l’arte di intrattenere con le parole, oppure se vogliamo, l’arte di comunicare. Da qui nasce il rap. Dalla fine degli anni ’70 ad oggi le tematiche sono cambiate drasticamente, modificando l’immaginario comune di quello che sono il rap e l’hip hop. A me piace pensare che il rap si possa utilizzare per fare poesia, e viceversa. I confini sono creati dalle persone per cercare di avere il controllo su altre persone, sulla Terra, sul tempo. Purtroppo per l’immaginario comune (e con comune intendo la percentuale di persone che crede a ciò che appare in televisione) il rap è una musica fatta di parole violente, tematiche crude e parolacce. Purtroppo le persone che guardano la televisione sono le stesse che credono al “sentito dire” e pensano che la poesia sia qualcosa di palloso che riguarda l’amore e la dolcezza. Le differenze sono per lo più tecniche e scandite da ogni singolo artista per tematiche e linguaggio, ma la poesia e il rap – anzi, la poesia e la canzone fanno parte della stessa esigenza umana, ovvero esprimere sentimenti con le parole. E per me le parole sono qualcosa di estremamente ritmico, tanto che con i dovuti accorgimenti si può rappare o cantare la Divina Commedia (gli accenti dell’endecasillabo non sono semplici da adattare al classico 4/4 della musica occidentale, ma è fattibile: non è necessario, ma si potrebbero ottenere dei buoni risultati); tanto che posso leggere il testo di una canzone, verosimilmente di Tom Waits o De Andrè, e credere che in realtà sia una poesia.
“La poesia è un’articolazione ritmica del sentimento” (Urlo)
L’esercizio della parola poetica è prima parola o prima canzone?
Non lo so. Non ne ho la più pallida idea. Non ne ho piena consapevolezza ormai. Indubbiamente qualche anno fa scrivevo per scrivere canzoni. Ora non più, almeno è ciò che mi racconto. Forse l’idea di scrittura sedimentata nel mio subconscio creativo corrisponde ad una pallina da ping pong che rimbalza tra poesia e canzone (rap). Ogni tanto il punto lo prende la poesia, ogni tanto il rap, ma è una partita che non vince mai nessuno dei due sfidanti, è uno spareggio costante. Il processo creativo inizia dall’intuizione, da un’idea flebile, a volte da un concetto lasciato a prendere polvere su un post-it: sono pieno di appunti sparsi, di registrazioni lampo nel telefono. Tutte queste idee mi circondano fino a che, una di esse, di tanto in tanto prende il sopravvento e mi fa scrivere. Il processo di labor limae che ne segue è talmente lungo che non saprei dire se adatto il testo alla base musicale per renderla canzone, oppure se creo una musica ad hoc per musicare quella che potrebbe essere una poesia. In definitiva scrivo poco, non assiduamente. Scrivo quando una di quelle idee sparse mi viene a trovare. In quel momento il tempo si azzera e scrivo, senza perseguire altro scopo se non rendere viva e palpitante quella stessa idea.
“Spinti da una sensazione più che da un’idea sensata” (Colle Der Fomento ft. Esa)
Qual è stato il punto di incontro? Credo (ma forse sbaglio) che nasca rapper: cosa ha portato al di là, nello spazio della poesia?
L’ego. Io scrivo canzoni per cantarle dal vivo, dire la mia, esprimere concetti con la presunzione di scatenare una riflessione, un dubbio nel pubblico. Sono sempre stato attratto dal palcoscenico, da ogni tipo di palcoscenico, tanto da malcapitare anche in situazioni imbarazzanti, non adatte al mio linguaggio o al mio tipo di canzone. In alcuni casi sono riuscito a crescere, almeno credo, grazie alle figuracce. Uno dei palchi che mi ha segnato maggiormente è stato quello del mio primo Poetry Slam: pensavo fosse un concorso legato alla scrittura in tutte le sue forme, e mi presentai con il cd delle strumentali per rappare. Inutile dire quanto rimasi disorientato non appena appresi che si poteva usare solo la voce, e null’altro. Imbarazzato ed impreparato arrivai ultimo, sconfitto. L’ego mi ha spinto a studiare un modo per rendere i testi delle mie canzoni rap qualcosa di performativo e meno definito, qualcosa di adattabile e malleabile, per poter salire anche su quel tipo di palco. Imparo per essere come il prezzemolo. Quel primo Poetry Slam in Biblioteca a Vimercate è stato l’inizio del mio viaggio al di fuori della barriera musicale proiettandomi nella performance della parola. Sono passati quasi dieci anni e ci sto ancora lavorando, ma i primi risultati si fanno vedere.
“Non esistono due parole più pericolose di Buon Lavoro” (Whiplash)
https://www.youtube.com/watch?v=NpcaTzi-R9Y
La poesia è semplicemente rap senza base musicale?
Dipende da cosa si intende per l’uno e per l’altra. Ora utilizzerò una delle mie tecniche oratorie di potenza suprema. Il paragone. Prendi una cesta di mele marce. Le mele marce fanno schifo. Metti accanto una cesta di pere buone. Le pere buone fanno bene. Se tu hai solo queste due ceste e, per assurdo, nella vita, non vedrai mai altra frutta, per te le mele saranno una cosa orribile come mangiare la cacca, e le pere il frutto divino. Ora, sappiamo che alcuni la cacca se la mangiano, ma delle abitudini oscene degli altri a noi poco importa. Se nel cesto di mele marce, ce ne sono una o due mature, probabilmente non penseresti più che le mele sono una cosa orrenda. Penseresti che ci sono mele e mele. Probabilmente le pere continueranno ad essere comunque il tuo frutto preferito, ma non diresti che le mele sono Satana. Tornando alla tua domanda, vedrei il rap e la poesia come due ceste di frutta, mele da una parte, e pere dall’altra. Con le mele marce non ci fai niente, a meno che ti voglia fare del male. Ma con le mele buone puoi fare la macedonia insieme alle pere. Forse la canzone non diventerà mai poesia e viceversa, ma insieme possono creare una macedonia imbattibile, tanto da non capire più cos’è mela e cosa pera, estasiati dall’ottimo sapore. Poi c’è anche la questione tematiche: esistono poesie d’amore, esistono canzoni volgari; esistono poesie volgari, esistono canzoni romantiche (anche rap). Ogni brano, ogni testo, ogni poesia, va considerata singolarmente, non si può fare di tutto un cesto una macedonia.
“Il cucchiaio non esiste” (Matrix)
La Lombardia, anzi la Brianza, dà molto al mondo del poetry slam: un caso oppure no?
Non so se sia un caso o meno. Da quando è approdato il Poetry Slam di Lello Voce, dieci anni fa a Vimercate, c’è stata un’espansione del fenomeno sul territorio, questo è ciò che so di certo. Si sono attivati laboratori, serate, pugilati letterari e altre situazioni a me totalmente sconosciute. All’epoca non sapevo nemmeno potesse essere interessante ed estremamente divertente un’intera serata di sole letture poetiche. Fino ad allora per me la poesia era qualcosa di non troppo necessario e mai avrei pensato di diventarne dipendente. Negli anni ho conosciuto anche Dome Bulfaro e Poesia Presente di Monza, il Poetry Slam del Tambourine di Seregno, Paolo Agrati, Marco Borroni, Simone Savogin, il campione Brianzolo Mario Frighi. In Brianza ci sono tantissimi poeti, di tutte le età, di stili differenti, e non credo che sia la Brianza a dare molto al Poetry Slam. Penso che ovunque ci sia grande interesse e grande concentrazione di energie poetiche ed artistiche in genere, qualunque intenzione possa divenire azione concreta. Torino è attivissima. Venezia, Treviso pure. Il sud si sta caricando sempre più. Sono le persone a fare, e più persone vogliono fare, più si farà. La potenza di questo fenomeno è la marginalità della competizione, si creano amicizie e connessioni anche forti tra tutti, tanto che citare solo alcuni dei protagonisti è veramente riduttivo. Forse nasce tutto sempre per caso, poi, se ci si prende cura di ciò che è nato, cresce. Ad oggi la Lombardia è la regione più attiva all’interno del campionato nazionale L.I.P.S. (Lega Italia Poetry Slam): io sto mettendo tutte le mie energie e la mia esperienza organizzativa per promuovere questo tipo di diffusione della poesia e della poesia performativa. Lo stesso lo stanno facendo in altre regione, altri come me. Il fenomeno è sotterraneo, e forse non conosciamo altre scene. Sono sicuro che il fenomeno sia destinato ad espandersi sempre più. Non resta altro che continuare a diffondere.
“Fare o non fare! Non c’è provare!” (Star Wars)
I primi pensieri alla vittoria del poetry slam lombardo?
Bella domanda. Soprattutto adesso che il campionato nazionale 2015 si è concluso con la vittoria di Simone Savogin, classificatosi terzo al Poetry Slam lombardo. Ho vinto in Lombardia, ma ad Ancona sono stato il primo degli esclusi. Vincere non serve a nulla. Serve all’ego del poeta. Ma dopo tanti Poetry Slam ho capito che la competizione non è per i poeti. La competizione serve per il pubblico: in un’epoca in cui il talent show è il format più seguito al mondo – Italia inclusa – il Poetry Slam, dopo essere stato inventato trent’anni fa da Mark Kelly Smith a Chicago, trova terreno ideale per essere compreso e diffuso. Il pubblico si aggrappa alla competizione, diventa competente, ascolta attentamente, critica ed esulta, esalta i poeti stessi, li incita. Non vede l’ora di giungere all’esito finale, senza rendersi conto di aver compiuto un viaggio incredibile insieme ai poeti. Se i poeti badano alla competizione, daranno al pubblico solo quello che il pubblico vuole. Il poeta non deve nemmeno cercare di capire cosa funziona per il pubblico del Poetry Slam, perché il pubblico dello Slam è tutta la gente disposta ad ascoltare, e quindi non ci sarà mai nulla di più adatto che essere quello che si vuole essere, come poeti e come persone. L’unica cosa che il poeta deve fare durante un Poetry Slam è dare il meglio di sé. Anzi, darsi. Offrire al pubblico tutto il possibile. Forse, è proprio questo a collegare il Poetry Slam all’Hip Hop e al concetto di ricerca della perfezione recuperato dal Wu Tang Clan nei suoi album, concetto recuperato dagli immaginari filmici della Shaw Brothers nei racconti Shaolin e delle varie arti marziali.
“Diffondere le arti marziali tra il popolo” (La 36^ camera dello Shaolin)
https://www.youtube.com/watch?v=PzwrP4fP_h0
Eell shous: come nasce il progetto e dove va a finire (sempre che debba andare a finire da qualche parte).
Il progetto nasce per caso, nel 2005. In quel periodo esisteva una crew che si riuniva per passare i pomeriggi a ballare breakdance e cazzeggiare sotto i portici di Arcore, quelli davanti alla villa. Non quella villa, l’altra – quella comunale. La spinta verso il palcoscenico è sempre stato uno dei miei motori creativi, avevo le idee ma non tutte le abilità tecniche e pratiche per trasformare i pensieri in azioni. Volevo dunque creare uno spettacolo di musica e Breakdance, che andasse fuori dai binari classici dell’Hip Hop. Ibridare immaginari da vari generi, traendo ispirazione dal territorio. Proposi dunque il progetto, un po’ per gioco, un po’ per sfizio, a Vin e Tempo. Il primo ballava Electro Boogie, Lockin’ e Poppin’, il secondo ballava Breakdance classica e faceva un po’ di Beatbox. La cosa bizzarra è che le canzoni non erano affatto ballabili, le tematiche non erano adatte come non lo era la musica: ero innamorato di Tom Waits, e cercavo di creare suoni assurdi con strumenti a volte scordati, o vecchi, che non avevano senso in tutto l’impianto compositivo. Campionavo rottami, chitarre blues, ci mettevo dentro un po’ di elettronica alle prime armi. Il risultato era estremamente particolare. Funzionava, ma era quasi inascoltabile. Per i concerti preparavamo delle vere e proprie sceneggiature, per quanto il termine potesse avere senso nella nostra testa e per quello che volevamo fare. Dopo aver realizzato un primo demo, abbiamo avuto una lunga pausa, durante la quale ho realizzato due dischi di musica elettronica col progetto The Snipplers. Tempo si dedicava alla Dancehall con Seconda Classe. Dopo 4-5 anni io e Tempo ci siamo incontrati di nuovo, e come all’inizio, un po’ per gioco, un po’ per sfizio, abbiamo deciso di rifare alcune vecchie tracce, con un’ottica diversa, più consapevoli dei nostri limiti. Vin ci ha aiutato nella realizzazione di una traccia perché trasferitosi all’estero. Il risultato è stato più che soddisfacente, tanto che decidemmo di fare un album. L’aspetto live è sempre stato un nostro pallino: ogni cosa deve funzionare prima dal vivo che su disco, tanto che il nostro cavallo di battaglia sono diventate le liti sul palco, le gag, le scene improvvisate. Dagli errori abbiamo imparato a creare scene, a non fermare mai l’esibizione, tanto da far diventare il quotidiano parte dello spettacolo e viceversa. L’idea è quella di intendere le nostre performance come parte integrante del vivere di tutti i giorni per poi portare tutti i giorni rappresentati sul palco. Il concerto diventa un momento in cui io e Tempo parliamo con le persone, cazzeggiamo con loro, le invitiamo a partecipare, proponendo musica e testi già scritti con improvvisazioni del momento. Creiamo canzoni per metterle in scena. A volte ci immaginiamo la scena sulla quale montare una canzone. Altre volte creiamo una musica con suoni che richiamano una scena. Altre volte pensiamo ad argomenti che con i suoni della musica riescono a rappresentare in maniera più completa la scena. A volte tutte queste cose insieme, si interlacciano, e sinergicamente ci aiutano a portare rapimenti, rianimazioni cardiovascolari, corse, tavole imbandite sul palco. Ogni cosa vissuta può essere portata sul palco come luogo adatto alla rappresentazione della vita. Forse il prossimo passo del progetto sarà trasformare ogni luogo in un luogo adatto per una nostra performance. Quest’estate ci siamo esibiti in un’isola ecologica proponendo le canzoni del primo album dal titolo “Spazzatura”.
“Verso l’infinito e oltre” (Buzz Lightyear)
Il rap, con la scelta però di un settore poco commerciale nel momento in cui l’hip hop domina.
Lo so. Dovevo fare più business. Ho toppato alla grande. Scherzi a parte, io sto bene. Lavoro in parte con la musica e le parole nelle scuole, nei centri di aggregazione. Mi è capitato anche di lavorare in carcere. Faccio gli spettacoli con Eell Shous e i Poetry Slam. Per arrotondare sono istruttore di nuoto. Prendo ispirazione dai campi, dalla vita quotidiana, dal viverla quotidianamente e normalmente. Non spendo soldi inutili per indumenti rappresentativi del genere (il mio amico poeta Paolo Agrati direbbe che sono un ratto). Per questo motivo non ho necessità di fare della mia musica un vero e proprio business per tirare a campare o diventare ricco. Poi il rap lo faccio da 14 anni, da quando il rap era appena morto in Italia per poi rinascere negli ultimi anni con nuove vesti. Per me la scrittura è qualcosa di viscerale, di molto importante. A differenza dell’arte grafica, nella quale mi diletto più per divertimento personale, nella scrittura metto tutto di me, quasi a staccarmi pezzi di carne e appiccicarli sul foglio. Non voglio privarmi degli arti, del sangue, dei miei pensieri per fare soldi e basta. Ho fatto delle canzoni orribili nei primi anni di attività, e quelle canzoni sono orribili involontariamente: non avevo preso piena coscienza dei miei processi creativi. Ora che sono più cosciente non voglio fare delle cose commerciali volontariamente per poi dirmi fra qualche anno che continuo ad essere “un pirla che fa cagate”. Per me è un’esigenza, prima di tutto. Osservo e racconto ad altre persone, dando tutto me stesso, e sudo tantissimo durante le performance. Non credo di essere l’unico a fare così. Quando altri scrittori hanno la mia stessa esigenza, lo avverto, e riesco ad annullare il mio ego, e ascolto o leggo cosa hanno da dare. Quando non c’è l’intenzione di dare veramente qualcosa, ma solamente mostrare vanitosamente il proprio io per rubare energia dagli altri, mi annoio. Non c’è nutrimento. Non ascolto, non leggo. A volte non me ne accorgo subito e rivaluto le operazioni artistiche di altri individui. Prima non lo facevo, rimanevo testardamente sulle mie idee. Cambiare è bellissimo, basta rimanere coerenti. Facile a dirsi, difficile a farsi, ma le code a tratti formate dai trattori sono un buon allenamento per lo spirito e la pazienza.
“Mi permetto di cambiare opinione a metà di un discorso” (Uochi Toki)
Nella maggior parte dei casi i temi sono racconto di incontri, di facce, attitudini, personaggi, un universo descritto con ironia, sarcasmo se è il caso. È questo il panorama? Quello di una commedia umana contemporanea?
Sicuramente uno degli argomenti di cui non scrivo molto, direi praticamente zero, è l’amore. Per il resto attingo da quello che vedo e sento. Cerco di trovare corrispondenze tra gli eventi naturali e la vita sociale. Cerco di captare delle logiche dai piccoli accadimenti quotidiani, come per esempio un tale che aiuta una vecchietta ad attraversare sulle strisce pedonali, o il tamarro che tira fuori il terzo dito dal finestrino dell’auto per inveire contro un’altro automobilista. A volte prendo spunto da incidenti grandi e piccoli, come quando mi sono tagliato con un pezzo di metallo, oppure i disastri ambientali. La matrice comune è quella di far riflettere, a volte creare dei dubbi da delle certezze, costringere lo spettatore o il lettore/ascoltatore a pensare intensamente al significato di determinate situazioni. La tua definizione mi piace, credo che tu abbia azzeccato. Concludo dicendo che ogni pezzo che scrivo, sia da solo che con Tempo, si porta dietro più di un aneddoto significativo. A volte riscriviamo dei brani, o li completiamo perché è il corso stesso della storia che ci fa capire che alcuni brani non erano ancora stati conclusi. Ed ogni brano, è un po’ come tutti i giorni, a volte si piange, a volte si ride, a volte nulla ha senso, altre è tutto chiaro, cristallino come i laghetti di montagna – sempre che qualche vacca non ci abbia cagato dentro.
“La fine è importante in tutte le cose” (Hagakure / Ghost Dog)