Il Cristo in croce di van Dyck continua a parlarci a quattro secoli di distanza. Mentre è in corso la mostra alla Cappella reale della reggia di Monza, il Cittadino (media partner) ha chiesto ad alcuni curatori d’arte, artisti, poeti di leggere l’opera per noi.
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Non si sa da dove abbia inizio, su quali fondamenta si appoggi o come si regga. Non ci sono neppure le mani di chi gli sfiora i piedi, le lacrime di chi lo piange. È solo. Denudato dalla luce del lampo che non lo accoglie ma lo mostra in un istante.
La scena impressiona la nostra retina come un flash mentre profetizza il buio dell’attimo dopo, di quando il lampo sarà spento e tutto rigettato nel buio. Van Dyck ci concede di essere presenti proprio lì, in quel preciso istante di bagliore. Siamo in quel millesimo di secondo che non tornerà più.
Quello che vediamo è ciò che in ambito sportivo definiremmo fotofinish, il fotogramma unico, quello che conta più di tutta la corsa per sapere chi ha vinto, al quale farà seguito solo la proclamazione.
Assistiamo alla pelle che si illumina e allo splendore del velo che nasconde il corpo intimo e soprattutto (anche compositivamente), alla parola che brilla fino a riverberare, perdurando nella scena un istante in più di ogni altro elemento, come fosse caricata di una luce speciale. La parola proclama INRI: Gesù il Nazareno, il re dei Giudei.
È lui e non ci si può sbagliare. È un corpo come un altro ma quello è il Suo. INRI riverbera, e così, attraverso la pittura, la parola impronunciabile, la parola muta rimbomba come il tuono che segue il lampo superando il buio, squarciando la tenebra, battendo l’immagine del corpo con il suono. La parola supera la regola dell’indicibile, sbalordisce, mette a disagio gli stessi che lo condannavano ma è inequivocabile, scritta e pronunciata. Van Dick mette in luce il corpo ma fa risuonare il buio. L’istante dopo nessun corpo si potrà più vedere e nessuna parola leggere.
L’immagine nega il suo stesso futuro portandoci in una dimensione che oggi facciamo fatica a comprendere, ancora di più, se posti proprio davanti all’apoteosi del virtuosismo pittorico seicentesco. La stessa immagine ci scaglia oltre se stessa, nel tempo dell’immagine superata. Scintilla con il lampo la scritta.
La parola è il suono di quell’immagine, la sua onomatopeica.
Sull’immagine vince la parola perché risuona anche quando il buio torna. Oltre ad aver impressionato la retina dell’occhio con il suo bagliore ha fatto vibrare il timpano con il fragore. È la vittoria del suono sulla luce, dell’orecchio sull’occhio e il mondo diventa parola e l’opera di Van Dick eclatante ribaltamento del tempo che viviamo. Che mondo sarebbe se fosse veramente così, fatto anche di ascolto dopo tutte le immagini?
(*artista, docente dell’Accademia di Brera)