Un ponte sopra quello che rischia di diventare un fossato. Ponte. Non ariete. Sono gli organizzatori del Pride a parlarne. Ossia chi la realtà dei diritti negati o contestati la conosce sulla propria pelle. Letteralmente. Sabrina Corona è una di queste. Ieri vittima di un brutale pestaggio per la sua omosessualità, oggi nel direttivo di Boa, Brianza Oltre l’Arcobaleno, associazione che gestisce due centri d’ascolto sul territorio. Uno a Monza e l’altro a Ruginello di Vimercate (lo sportello si trova in via Diaz 23, numero verde 800.012.503 oppure ascolto@boabrianza.it). Lo scorso anno hanno ricevuto, solo in quest’ultimo, quasi 200 richieste di aiuto. Più o meno una ogni due giorni. Sono genitori alle prese con il coming out dei figli. Famiglie in cui un componente vorrebbe affrontare la transizione di genere. Questo, quando va bene. Se no, come accaduto l’anno scorso, sono due ragazzi sbattuti fuori dalle rispettive case e costretti a trovare un rifugio di fortuna. Boa offre supporto, dando informazioni sia dal punto di vista legale sia pratico. A volte, come nell’ultimo caso, anche economico. Sono le storie vere dell’altra Brianza. Quella ancora nascosta, per la quale manifesteranno il prossimo settembre.
Testimonianza: la volontà di vivere una vita alla luce del sole
«Il Pride -spiega Sabrina- ha lo scopo, tra le altre cose, di dare visibilità alle persone che non hanno il coraggio di vivere la propria vita alla luce del sole. Il coming out, oggi, per molte famiglie, è ancora un tabù. C’è disinformazione, pregiudizi che, alla lunga, sono diventati leggende metropolitane. Se potessi dire una sola cosa al comune di Arcore è che si rischia di perdere un’occasione di dialogo. Non siamo una minaccia, non servono fossati. Noi chiediamo solo di essere accolti e di poter vivere una vita felice come tutti gli altri». E di vita felice, ma soprattutto della sua negazione, Sabrina ne sa un po’ di più di molti altri. Era il 2004 quando, allora 24enne, fu infatti vittima di un’aggressione di matrice omofoba. È lei stessa a parlarne: «All’epoca lavoravo in una nota catena. Avevo una compagna e immagino che qualcuno avesse sentito una nostra conversazione telefonica. All’inizio furono solo piccoli dispetti, qualche battuta, cose innocue. Mai avrei pensato a quello che successe dopo». Ed è così che una sera, mentre tornava a casa dal lavoro, su una statale della Brianza, Sabrina si ritrova affiancata da due auto. La speronano, la fanno cadere dal motorino in un campo. Scendono sei uomini che iniziano a picchiarla e a minacciarla con un coltello alla gola, intimandole di lasciare il lavoro. «Ero sola -prosegue-, niente case e nessuno che passava di lì. Ricordo il vuoto, non pensavo nemmeno più a me. Pensavo alla mia famiglia, a come avrebbero detto ai miei genitori dove mi avevano trovata. Non mi sono più presentata al lavoro e dopo un po’ di tempo ho fatto avere le mie dimissioni, ma con cautela perché sapevo che sarebbero potuti risalire al mio indirizzo. E temevo che tornassero. Sempre per paura non denunciai nulla». Il terrore fini per diventare il suo pane quotidiano: «Rimasi segregata in casa per un anno, ebbi disturbi alimentari. Poi, grazie ad un percorso terapeutico, riuscii a venirne fuori e a decidere di metterci la faccia. E di mettermi al servizio delle persone, perché nessuno si dovesse sentire solo come mi ero sentita io».
Testimonianza: il Pride per dire no ai pregiudizi
E accade ancora questo? «Sì, accade ancora -conclude-. In forme più o meno violente. Ci sono situazioni dove ci si scontra con i pregiudizi personali. Avviene anche nel settore medico sanitario. O sul posto di lavoro, in particolare per le persone transgender. Oggi non siamo ancora liberi di camminare mano nella mano per strada, come chiunque altro. Il Pride è anche per questo».