Potrebbe avere destinazione commerciale o residenziale. Volendo anche produttiva ma, ad ora, questa sembra essere l’ipotesi meno accreditata. Scartata invece l’idea di trasformare l’edificio in un bed and breakfast: se ne era parlato qualche anno fa poi, però, alle parole non c’era stato alcun seguito. Sul futuro dell’area che fino ai primi anni Novanta ha ospitato il vecchio carcere giudiziario di Monza – i trasferimenti verso la casa circondariale di via Sanquirico sono iniziati a metà del 1992 – in via Mentana 30, quello che si apre è un caleidoscopio di possibilità.
E se Carlo Corti, rappresentante della proprietà, durante il sopralluogo organizzato lunedì mattina dall’assessorato allo Sviluppo del territorio si è dimostrato più che flessibile – «Vediamo se riusciamo a inventarci qualcosa di utile per la città – ha commentato – ne stiamo discutendo con l’amministrazione e proprio questa settimana abbiamo fissato un appuntamento con gli uffici tecnici» – più pragmatica è stata Martina Sassoli.
«Ci troviamo in una fase ancora interlocutoria – ha spiegato l’assessore – definiremo l’iter con la proprietà. Non dimentichiamoci, però, che quest’area sorge accanto a quello che sarà il nuovo polo scolastico del quartiere: ecco allora che le proposte potrebbero tenere in considerazione anche questo futuro asset di sviluppo».
Acquistato dal demanio nei primi anni Duemila da un immobiliare brianzolo, il vecchio carcere è dismesso dal 1993: un lotto di poco più di tremila metri quadri che contiene un fabbricato di quasi 2.500 metri quadri. «Un edificio che con ogni probabilità sarà completamente abbattuto – hanno commentato amministrazione e proprietà – ma di cui, all’interno di quella che sarà la nuova conformazione, vorremmo conservare tracce della sua storia».
Intanto, però, quello che resta del carcere giudiziario di via Mentana è uno stato di degrado che conserva, tra le sbarre arrugginite e le scritte sui muri, decenni di storia monzese e brianzola.
Negli anni il tetto è crollato e colonie di piccioni inevitabilmente hanno preso casa al suo interno. Ci sono le celle, numerate, che ancora mostrano i resti delle occupazioni. Alle pareti immagini di donne, svestite e ammiccanti, e altre raffiguranti automobili da corsa e tatuaggi colorati.
Ci sono preghiere, immagini di santi e di madonne, e disegni realizzati a mano: sono draghi, occhi che scrutano anime, schizzi che non trascurano l’ironia – “La legge è uguale per tutti” compare su un muro, accanto a due piatti della più classica bilancia pericolosamente sbilanciati. Ci sono mensole costruite con pacchetti di sigarette e spioncini tappati alla meno peggio: dal corridoio i secondini potevano sbirciare i detenuti in ogni momento, sia nelle celle sia nei bagni.
Il vecchio carcere, a pianta quadrata, risale agli anni Trenta: costruito durante il fascismo, era stato progettato per accogliere una settantina di detenuti. Negli anni del regime erano stati incarcerati “centinaia di antifascisti e di partigiani”, come ricorda Anpi Monza, citando Pietro Colombo, Luigi dell’Orto, Giovanni Inzoli, Giuseppe Malvasi, Gianfredo Vignati e Oreste Ghirotti che lì hanno trovato la morte. Nella primavera del 1973 ci era finito Giovanni Ventura, indissolubilmente legato alla strage di piazza Fontana e alla strategia della tensione. Alla fine degli anni Ottanta passa da Monza anche Gerlando Alberti junior, boss di Cosa Nostra, nipote di quell’Alberti che in America per lunghi anni ha trafficato in eroina.
Chiuso nel 1992, il carcere riapre i battenti nel 2001: la cantautrice Irene Grandi decide di girare al suo interno il video di uno dei suoi successi, “Per fare l’amore”.