Dallo scorso novembre è il direttore scientifico dell’Irccs Fondazione San Gerardo, è stato direttore del dipartimento di Medicina, direttore della gastroenterologia a Monza ed è professore ordinario in Università Bicocca. Un osservatorio privilegiato quello di Pietro Invernizzi, 57 anni, per raccontare la professione medica oggi, i cambiamenti e le aspettative dei giovani che vogliono intraprendere questa professione.
Professore, c’è davvero così tanto malcontento tra i medici?
Non mi meravigliano i dati emersi dallo studio, anche perché si parla anche di percezioni e non solo di dati oggettivi. Però è certo che viviamo un momento di crisi profonda. Una volta c’era il sindaco, il prete, il medico e l’insegnante: oggi non c’è più quel riconoscimento sociale.
Stipendi troppo bassi?
È motivo di scontento perché sappiamo quanto sono pagati i colleghi all’estero. Bisogna anche dire che in Italia chi lavora nel pubblico ha la stessa retribuzione, ma chi vive a Milano è come se guadagnasse un terzo rispetto a chi abita in un piccolo centro del sud. Il costo della vita non è comparabile.
Medici in fuga a Monza e Brianza: «Stipendi bassi, burocrazia, rischio cause»
C’è malcontento anche al San Gerardo?
Rispetto ad altri contesti la percezione è buona. Le dimissioni ci sono, ma sono poche e ci sono sempre state; così come c’è anche chi si lamenta sempre e comunque.
Per cosa ci si lamenta?
Stipendi bassi, troppa burocrazia, paura delle cause legali e organizzazione. I miei colleghi americani con cui sono in contatto sono subissati da cause legali e il fenomeno sta arrivando da noi con avvocati che si fanno pubblicità alla radio consigliando di fare sempre e comunque causa.
Come vede i giovani futuri medici?
Dopo il Covid viviamo in un contesto di fragilità generale e le giovani generazioni sono sicuramente meno strutturate di quanto fossimo noi trenta o quarant’anni fa. L’impressione è che molti si iscrivano a medicina come si iscriverebbero a ingegneria, ma è ben diverso costruire ponti dall’avere a che fare con la morte. Probabilmente la società dei social vede la morte come un fallimento, non c’è più la naturalezza degli eventi.
Quindi?
Molti scelgono specialità più remunerative e che hanno un minor impatto con la morte. Difficile trovare oggi chi si occupi di cure palliative in età pediatrica o di geriatria. Più facile lavorare in un ambulatorio di dermatologia dove , certo, può capitare di seguire un paziente con melanoma, ma è un evento più raro.
Medici in fuga a Monza e Brianza: la strategia dei “Due pilastri”
Cosa fa l’università per formare i nuovi medici?
In Bicocca abbiamo il progetto “Due pilastri”: da una parte puntiamo alla miglior formazione possibile che deve essere quanto più trasversale perché oggi un medico deve avere competenze informatiche e deve conoscere i macchinari più avanzati. L’altro pilastro è però la formazione della persona. Per questo incentiviamo i periodi trascorsi sul campo nei paesi del Sud del mondo. Abbiamo almeno una ventina di studenti che sono partiti per l’Uganda. Tornano diversi, capiscono in quel contesto cosa vuol dire non avere nulla e continuare comunque a sorridere.
Cosa consiglierebbe a un giovane?
Di fare esperienze diverse, di trascorrere un periodo all’estero, di essere curioso e non aver paura delle sfide perché tutto questo rende stimolante e gratificante la nostra professione.