Qualcosa si intuisce, anche senza averlo mai studiato prima: “saluton” vuol dire ciao e “dankon” grazie. “Mateno” è mattino e “lundo” significa lunedì. L’esperanto è una lingua di contatto, costruita a tavolino: Federico Gobbo, monzese d’adozione, classe 1974, la insegna da anni. È professore ordinario di “Interlinguistica ed esperanto” all’università di Amsterdam e docente a contratto di “Pianificazione Linguistica e lingue pianificate all’università” di Torino. Partecipa anche al progetto di ricerca promosso dall’Unione europea “Mobilità e inclusione nell’Europa multilingue” presso l’università di Milano-Bicocca.
Intanto: cos’è, di preciso, l’esperanto?
È una lingua regolare, ideata da Ludwik Lejzer Zamenhof, polacco e askenazita, che nel 1887 ne pubblica il primo manuale: è strutturata apposta perché si impari in poche settimane, in modo da arrivare, in una manciata di mesi, ad averne una conoscenza fluente. Si rifà alle lingue romanze, germaniche e slave. Il suo inventore, cosmopolita, kantiano e illuminista, nutriva una grande fiducia nella scienza e nel progresso: da qui il desiderio di ideare una lingua che, nel pieno del periodo della diaspora ebraica, superasse confini, tensioni, guerre e lotte. Una lingua che aiutasse a risolvere la secolare questione ebraica, magari fondando uno stato ebraico negli Stati Uniti – prendendo esempio da come si erano ben assestati oltreoceano i mormoni. Ma il suo progetto, osteggiato da più parti e a più riprese, ben presto naufraga.
Come si avvicina all’esperanto?
Mi ci imbatto da ragazzino, ai tempi delle medie: leggendo J. R. R. Tolkien, provando interesse per le lingue inventate dall’autore inglese che, guarda caso, era un esperantista, e sfogliando alcuni libri universitari di mia madre. In quel periodo avevo anche scritto un racconto di fantascienza in cui compariva una lingua aliena: l’avevo inventata. Ma le mie prime riflessioni sulla lingua risalgono a molto prima.
Vale a dire?
La famiglia di mio padre è veneta, quella di mia madre altoatesina. Da bambino ho vissuto in una babele complicata tal punto che, quando ci si incontrava tra cuginetti, non sapevamo quale lingua usare per giocare insieme.
E poi?
Poi arrivano gli anni del liceo, ho studiato al liceo Frisi. All’epoca, la professoressa di italiano e latino che ho avuto al triennio si era appassionata agli studi di semiotica di Umberto Eco: erano gli anni in cui questa disciplina andava di moda. Un giorno ci ha parlato del saggio “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea”, dove Eco parla dell’esperanto.
Eccolo, quindi, tornare nella sua vita. Quando inizia a studiarlo seriamente?
All’università. Ho studiato a Torino Scienze della comunicazione e lì ho scoperto che la linguistica mi piace più della semantica. Mi capita di seguire un corso di esperantologia e alla fine in questa materia mi laureo, con lode e dignità di stampa. Pian piano negli anni mi avvicino alla comunità esperantista e non me ne allontano più. Oggi mi divido tra la cattedra a Torino e quella ad Amsterdam.
Ma oggi quante sono le persone che parlano l’esperanto in Italia?
È un dato molto difficile stimare: forse centomila. I corsi online hanno un gran numero di iscritti: questo ci fa pensare che non ci sia un’offerta adeguata in aula. L’Europa per l’esperanto rappresenta il bacino più grosso, nel resto del mondo è meno diffuso. Complessivamente, lo parlano circa un milione di persone.
Cosa la affascina di questa lingua?
Oggi più che mai di esperanto c’è bisogno: viviamo in tempi di grandi paure. Chi si avvicina all’esperanto, invece, solitamente è contrario a delimitazioni nazionali, etniche, sessuali. La comunità che usa questa lingua è composta da persone molto interessanti. Non ci si annoia mai, ad avere a che fare con loro, per lo scambio di pensieri e di vedute che è sempre possibile intavolare.