Monsignor Massimo Camisasca, lombardo, oggi vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, è stato prima studente e quindi amico e allievo di don Giussani. Fondatore (nel 1985) della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo, ha ricoperto l’incarico di vicepresidente del Pontificio Istituto per la Famiglia Giovanni Paolo II. Il Cittadino lo incontra per un colloquio a dieci anni dalla scomparsa del sacerdote brianzolo.
Monsignor Camisasca, in un suo libro dedicato a don Giussani lei ha parlato di un vostro primo incontro a «poco più di tre anni», poi della conoscenza vera e propria dopo i 14: come andarono le cose?
Come si formano i ricordi nella memoria? Quanti di essi sono esperienze vissute successivamente che attribuiamo a un più lontano passato? Quando avevo poco più di 3 anni abitavo in casa dei nonni materni a Milano. Nella stessa casa c’era lo studio medico dello zio, un fisiologo che aveva una delle prime macchine per la radiografia dei polmoni. Ricordo questo giovane prete che venne da lui per essere visitato. Ma il mio incontro decisivo con don Giussani avvenne quando avevo 14 anni e iniziai, con mio fratello gemello, a frequentare il liceo Berchet. Incontrai Gioventù Studentesca, nata da 6 anni, e don Giussani che sarebbe stato il mio insegnante di religione. Le sue ore di scuola furono per me decisive: non solo per quegli anni, ma per tutta la mia vita. Ancora oggi, a distanza di più di mezzo secolo, alimentano il mio pensiero e la mia azione. Il suo insegnamento sul senso religioso dell’uomo, la sua capacità di aiutarci a penetrare la figura di Cristo, il suo amore per la realtà umana della Chiesa, erano i fuochi di quelle lezioni che costituiscono ancora oggi il fuoco della mia stessa esistenza.
Guardando anche a questi 10 anni dalla scomparsa, quale pensa sia il contributo maggiore dato da Giussani alla sua vita, e perché?
Giussani mi ha aiutato in modo decisivo ad amare la vita, a scoprire la ragionevolezza della fede e il “vantaggio” che viene all’uomo dal seguire Cristo. Sono diventato sacerdote non per imitare lui ma per vivere come lui e non sono stato smentito dalla vita. Ancora oggi, come vescovo, attingo continuamente alle sue parole, non per ripeterle, ma perché esse sono diventate in me uno strato profondo di coscienza in cui ritrovo una fonte che zampilla sempre.
Giussani, lei ha scritto, è stato anzitutto un «educatore»: perché?
Ha incrociato decine di migliaia di esistenze e non in modo superficiale. Aveva la rara capacità di indicare alla persona i doni che possedeva e di aiutarla a farli crescere. Anche io sono stato portato a scoprire me stesso nel rapporto con lui. Egli è stato veramente una autorità che indicava la strada ma, nello stesso tempo, lasciava interamente a ciascuno il rischio della libertà.
In che modo ha saputo della sua scomparsa, e cos’ha pensato quel 22 febbraio di 10 anni fa?
Da Roma ero venuto a Milano proprio perché sapevo che le sue condizioni di salute erano gravissime. Don Carrón mi permise di vederlo e fu un incontro per me molto importante. Non era più cosciente. Stetti sulla soglia della sua camera e dissi ad alta voce una preghiera. Sembrò girare verso di me il volto. Piangendo lo lasciai. Al mattino presto, don Pino [don Stefano Alberto, ndr] mi telefonò per dirmi che Giussani era in cielo. Con la sua morte si chiudeva una fase decisiva della mia vita. Nello stesso tempo tutto continuava, perché le promesse di Dio non vengono mai meno.
Saprebbe indicare un difetto di Giussani?
Don Giussani, che alla superficie era un uomo talvolta duro e irruente, in realtà nascondeva una profonda timidezza e anche una certa indecisione. Non so se questi siano difetti. Gli era difficile correggere a tu per tu una persona. Lo faceva in pubblico, talvolta, ma non era la stessa cosa.
Qual è il ricordo diretto che conserva con più nettezza?
Ho naturalmente una infinità di ricordi di don Giussani. Molti ritornano fuori con il passare del tempo. Mi è perciò difficile selezionare un ricordo, uno solo. Mi vengono alla mente la forza trascinante delle sue lezioni sia a scuola che nei ritiri, il suo gusto per la buona tavola, le poesie che recitava a memoria, la sua capacità di trovare sempre nuove parole per esprimere le stesse esperienze, certe infinitesimali attenzioni per la singola persona…
Quali sono a suo avviso le caratteristiche originali principali del pensiero e del linguaggio di Giussani?
Per quanto riguarda il suo linguaggio, va studiato nelle diverse epoche della sua vita. Giussani – come Gadda e Testori – è stato un creatore oltre che un diffusore della lingua italiana. Il linguaggio in lui nasceva dal rapporto con le persone e dal rapporto con i fatti della vita. Facciamo un esempio: gli riferirono che sui muri del maggio ’68 francese era scritto «de la présence, seulement de la présence». Dopo un po’ nacque in lui la definizione della fede come «riconoscimento di una presenza». Si potrebbero fare centinaia di esempi. È tutto un lavoro da fare. Per quanto riguarda il suo pensiero, esso, come ha scritto il cardinale Scola, è un «pensiero sorgivo», ma non senza maestri. Alcuni sono facilmente rintracciabili (basti pensare alla scuola di Venegono), altri con più difficoltà perché sono seminati nei solchi degli incontri quotidiani. Potrei dire che egli ha cercato sempre di esprimere l’attualità viva della Tradizione contro ogni progressismo e tradizionalismo. Il suo pensiero è un incrocio fra san Tommaso e sant’Agostino, che avviene nell’epoca di Blondel, della fenomenologia e dell’esistenzialismo.
Con Giussani lei condivide anche le origini lombarde: quanto del suo carisma è legato alle caratteristiche “antropologiche” della Brianza?
Non si può comprendere Giussani se non si conosce la sua famiglia. L’attaccamento alla terra, ai valori dell’uomo concreto, della convivenza sociale, così lombardi, hanno permeato il suo spirito. Allo stesso modo, l’amore al lavoro, all’azione, al portar frutto. E infine anche una certa nostalgia dell’altrove, così manzoniana e così testoriana, che vive però nell’incanto di un particolare contemplato e amato.
Tre anni fa è stata depositata la richiesta per avviare l’iter di canonizzazione presso la diocesi di Milano. Qual è il suo augurio per il movimento di Comunione e Liberazione?
Amo molto tutte e singolarmente le persone di CL che conosco. Immagino quale grande peso ma anche quale grande gioia sono caduti sulle spalle di don Carrón. Prego ogni giorno per lui e chiedo allo Spirito Santo che CL sia sempre creativamente fedele alla sua origine. Il compito oggi di CL è quello di sempre: aiutare i giovani ad incontrare Cristo e a scoprire in Lui il fuoco che può riscaldare e incendiare l’intera esistenza portandola a maturità e fecondità.