Un’operazione contro le cosche ogni mese, 120 nel decennio tra il 2005 e il 2014. Ma anche 1.567 condannati di cui un quarto imprenditori, manager, professionisti, gente che non si sporca le mani con droga e armi ma mette a frutto i soldi della criminalità organizzata. Sono questi i numeri di due lustri di attività antimafia al Centro Nord. Indagini, e poi processi, nei quali la Brianza, purtroppo, ha recitato un ruolo di primo piano. Inchieste che hanno messo sempre più in evidenza il coté economico dell’infiltrazione mafiosa in territori diversi da quelli in cui storicamente sono radicate ’ndrangheta, Cosa nostra e camorra.
Un aspetto che ora una ricerca dell’università di Padova ha messo a fuoco studiando per tre anni gli effetti sull’economia locale, Monza compresa, dell’attività delle cosche.
«Abbiamo notato – spiega il professor Antonio Parbonetti, pro rettore e responsabile del dipartimento di scienze economiche e aziendali – che mancava un’analisi delle aziende criminali in prospettiva economica. L’approccio era per lo più sociologico ma senza focalizzare la dimensione delle aziende».
E così i docenti dell’ateneo veneto, insieme a Parbonetti anche Michele Fabrizi e Patrizia Malaspina, si sono armati di santa pazienza e hanno cominciato a raccogliere ordinanze e sentenze sulla mafia al Centro-Nord, hanno stilato una lista dei condannati (molti in via definitiva, qualcuno ancora in primo grado) e hanno controllato quanti di questi fossero amministratori di aziende o soci con una quota di almeno il 10%. Hanno escluso le società di persone, non hanno indagato sulle proprietà personali in termini immobiliari e non dei condannati; hanno invece centrato l’attenzione sulle società di capitali. Il risultato è stato sorprendente: la lista delle “società mafiose” riporta i nomi di 643 aziende, dai quali sono esclusi quelli delle imprese che non hanno depositato bilanci.
Una “black list” nella quale anche la Brianza fa la sua parte: 33 aziende con una dimensione media (il totale dell’attivo) di 1,3 milioni di euro e ricavi medi da 859mila euro. Società attive, sempre in provincia di Monza, per il 44% nel settore immobiliare, per il 23% in attività come noleggio, agenzie di viaggio e servizi e, dulcis in fundo, per il 15% nelle attività professionali.
«La mafia opera un po’ in tutti i settori – spiega Parbonetti – e la preponderanza del settore immobiliare in Brianza non è così sorprendente. Il punto critico sono le attività professionali, perchè qui ci sono le facce presentabili, funzionali al sistema mafioso».
Il tratto specifico delle infiltrazioni della criminalità organizzata in Brianza, quasi sempre la ’ndrangheta, è quindi questo: la capacità dell’organizzazione di nascondere traffici e soldi illeciti dietro il volto apparentemente rispettabile di persone che agiscono, apparentemente, come i manager o i dirigenti delle altre aziende, quelle pulite. Ma la ricerca dell’università di Padova è giunta anche a un altro importante approdo. Non sono stati analizzati solo i bilanci delle società che fanno riferimento a condannati per mafia, ma anche quelli delle aziende sane, studiando in particolare i cambiamenti, dopo gli arresti disposti da forze dell’ordine e magistratura, nelle località e nei settori di riferimento delle imprese mafiose. I dati da questo punto di vista parlano, nel giro di tre anni, di un aumento tra il 10 e il 17% dei ricavi e della redditività delle società. Cresce l’Ebitda delle singole imprese, il margine operativo lordo, la prima cartina al tornasole dello stato di salute dell’azienda. Un dato che, sommando tutte le imprese interessate, raggiunge un numero considerevole. Il Pil del Paese, insomma, si potrebbe sistemare anche così: a colpi di operazioni antimafia