La morte di Mondonico, Fabio Monti e un “Mondo” di rimpianti: il calcio, la moglie, la semplicità

La scomparsa di Emiliano Mondonico vista dal giornalista Fabio Monti. Che ne ripercorre i tratti umani e la carriera sportiva. In un certo senso decollata proprio da Monza, parastinchi ai piedi e maglia biancorosso addosso.
Emiliano Mondonico
Emiliano Mondonico Silvia Galli

Un gran numero di tifosi ricorda Emiliano Mondonico come l’allenatore che il 13 maggio 1992, alla guida del Torino, nella finale di ritorno di Coppa Uefa, aveva alzato la sedia allo stadio di Amsterdam per protestare contro una decisione dell’arbitro Petrovic (lo 0-0 consentì all’Ajax di vincere il trofeo, l’andata era finita 2-2). E’ un modo riduttivo per inquadrare l’uomo, anche se aiuta a capire lo spirito del personaggio. Era scapigliato più che ribelle, sempre pronto a cogliere il bello della vita, mai banale, attaccato alla sua terra e alle sue origini, e soprattutto con una passione infinita per il pallone, lui che aveva cominciato a tirare i primi calci all’oratorio.


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Da giocatore (Cremonese, Torino, Monza e Atalanta) era talentuoso ma incostante; da allenatore, era geniale e pirotecnico nelle scelte, ma anche concreto e sempre attento al risultato (a cominciare dalla promozione in A a Cremona nel maggio 1984). Lontano dalle mode di importazione, allergico al fascino dei grandi club, Mondonico, nella sua adesione convinta alla scuola italiana (massima attenzione alla difesa, organizzazione e gioco verticale), ha ottenuto risultati straordinari sull’asse Bergamo-Torino. Il suo era un calcio semplice, dunque non macchinoso e mai approssimativo, e la definizione di «calcio pane e salame» invece di offenderlo lo inorgogliva, e non solo perché una volta all’anno invitava i suoi amici in cascina a mangiare pane e salame a Rivolta d’Adda. Sono passati trent’anni, ma resta vivissimo il ricordo della stagione 1987-1988, quella contrassegnata dall’immediato ritorno in serie A dell’Atalanta di Stromberg e di Cantarutti, di Fortunato e Nicolini, di Garlini e Bonacina e dall’avventura in Coppa delle coppe. Iniziata a fari spenti contro i gallesi del Merthyr Tidfil, proseguita contro i greci dell’Ofi Creta, si era trasformata in un sogno, con l’eliminazione nei quarti dello Sporting Lisbona (2-0 a Bergamo, 1-1 in Portogallo) e l’assedio dei tifosi all’aeroporto di Orio.

Il cammino europeo si sarebbe interrotto contro il Malines, quando la finale sembrava a un passo, dopo la sconfitta in Belgio all’andata (1-2) e il gol del vantaggio di Garlini al ritorno. Il palo di Fortunato, un rigore non dato avevano rappresentato il prologo alla rimonta belga (2-1). Mondonico, all’Atalanta fino al 1990, aveva lasciato in eredità un sesto e un settimo posto, con la doppia qualificazione alla Coppa Uefa, prima di trasferirsi al Torino, con il quale, oltre alla finale del 1992, avrebbe ottenuto un quinto e un terzo posto, più la vittoria in Coppa Italia nel 1993. Ma il richiamo dell’Atalanta è sempre stato troppo forte per resistergli e allora ecco il Mondo tornare a Bergamo nell’estate 1994 e ripartire dalla serie B, per arrivare alla finale di Coppa Italia contro la Fiorentina nel 1996 e chiudere nel 1998 con una amara e sorprendente retrocessione in B nel 1998. A Bergamo, dopo le promozioni con Torino e Fiorentina e una sfortunata esperienza a Napoli, sarebbe tornato il 29 gennaio 2006, per allenare l’AlbinoLeffe.

Una stagione e mezzo, la nostalgia della Cremonese, il playoff perso con il Cittadella e di nuovo l’AlbinoLeffe, in C1 («perché il calcio è bello ovunque»), dove si sarebbe manifestata la malattia. Prima un breve stop fra fine gennaio e metà febbraio 2011, poi la salvezza conquistata nel play out con il Piacenza, ed eccolo fuggire dal campo e ripresentarsi il giorno dopo per annunciare pubblicamente la necessità di interrompere l’attività per curarsi. Della sua malattia parlava con serenità. Il 7 settembre 2012, a Sofia, prima di Bulgaria-Italia 2-2, che avrebbe commentato per Raiuno, disse: «Il peggio forse è passato, ma con questa bestia non si può mai sapere come andrà a finire. Mi hanno tolto sei chili di roba. Devo tutto a mia moglie, è stata lei a spingermi a fare le analisi per un piccolo problema che io avrei trascurato. Adesso vedo le cose in un altro modo, ma è sempre il calcio che mi aiuta ad andare avanti». Il pallone gli aveva offerto l’ultima grande soddisfazione, sulla panchina del Novara: 12 febbraio 2012, vittoria a San Siro in casa dell’Inter, 1-0, gol di Caracciolo, difesa e contropiede. Il calcio che vale un Mondo, un Mondo di rimpianti.