È tornato anche in edizione digitale per Baldini e Castoldi (vai al sito) il romanzo “Il bello del gas” scritto da Giorgio Terruzzi e Mario Pastonesi e pubblicato a metà degli anni Novanta (133 pagine, 14 euro e 6,99 in e-book): la storia di due fratelli e della loro passione per i motori, ambientata nella città dei motori, cioè Monza. Inizia così.
“Il mio nome è Italo Chiodi, ma la cosa non importa granché. Per quarantasei anni ho lavorato a Monza nel bar che un tempo era noto come Bar Azzurro e che ora è conosciuto come Bar degli Stupidi. Un cambio di denominazione nato così, per “volontà popolare”, in seguito a un a lunga vicenda che vorrei fosse ricordata. Una storia legata a un tempo che mi pare finito, a ragazzi che sono cresciuti, a questo bar che oggi chiudo per sempre.
Sono due i protagonisti principali. Due fratelli, Gino e Arturo C. Autentiche celebrità già all’inizio degli anni Sessanta. Un po’ per i primi successi sportivi, un po’ per quello che combinavano sulle strade, con i loro amici, quelli del bar. Di tutti i colori, a sentire le chiacchiere della gente: matti da legare, proprio un po’ spostati, sempre pronti a correre, a scherzare correndo, a far guai, in attesa di un incidente, una disgrazia annunciata…
“Il Cittadino” concedeva spazio agli sport dei motori. Una cosa normale perché a Monza, di corse, ci occupavamo un po’ tutti: l’autodromo a due passi, il Gran Premio d’Italia, i campioni, il fascino della velocità e, inutile negare, della morte sulla pista. Per ciascuno di noi l’adolescenza aveva comportato qualche legame con motociclette e automobili, da veder filare via, magiche e tuonanti tra la parabolica e le curve di Lesmo. Avevamo, chi più, chi meno, ricordi ed emozioni mandate a memoria, volti di piloti formidabili o scomparsi, da ricordare con affetto. Perché, a differenza di chi abitava altrove, noi li avevamo visti davvero, tante volte. Avevamo toccato, magari per un attimo, la gomma nera e tiepida di uno pneumatico liscio, gli smalti magnifici delle carrozzerie; avevamo nel naso l’odore dell’olio ricinato, il profumo inconfondibile della corsa…
Era una passione collettiva da condividere, da rinnovare la domenica, quando sopra gli alberi alti del parco saliva quel ruggito inconfondibile e bestiale. Sentivamo il suono nell’aria e si andava, di solito, in bicicletta. Adulti e ragazzini accompagnati dal papà, spingendo più forte sui pedali quando il rumore si faceva vicino e poi ancora, velocissimi e sudati, non appena l’olfatto veniva coinvolto nella frenesia. Quell’aroma di olio ricinato era l’ultimo segnale. Poi “si vedeva”, finalmente: macchie di colore sulla pista, vicine eppure imprendibili, lunari…Si partiva dal bar quasi sempre. C’era solo da dare il segnale, al cospetto di una certa proposta, pur assurda, demente che fosse.
Per esempio quella del Giulio Sironi, che intanto era forte davvero con la bicicletta, a un passo soltanto dal professionismo: “Io parto da qui con la bici”, fa al Gino seduto un momento, “e tu parti lo stesso, però a marcia indietro, con l’automobile dell’officina”. Questa macchina non era del Gino ma del Marangoni. Una vecchia Bianchina color grigio topo, usata di rado e di malavoglia per andare a prendere i pezzi nel deposito del ricambista. “Pronti”, dice Gino all’istante. “Si parte dal bar e si arriva anche a Sesto”. Al che il Giulio scatta veloce e il Gino per un po’ gli va dietro, controllando, girato a fatica, di passare attraverso le strade.(…)”