Cosa siano state Milano e l’arte nei primi anni Sessanta del Novecento è facile intuirlo. Avanguardia, movimenti, gruppi, ricerche, gallerie e proposizioni, idee, e mille altro, i nomi tanti, fra questi Lucio Fontana, Piero Manzoni e anche Arturo Vermi. Basti pensare all’amicizia che Vermi ebbe con Piero Manzoni e la frequentazione dei due nello Studio di Piero in Via Fiori Chiari a Milano nel quartiere di Brera a due passi dall’Accademia. Ora la LeoGalleries di Monza accende i riflettori sul movimento de “Il Cenobio” e Arturo Vermi.
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Il sodalizio operativo del Cenobio si forma ufficialmente nel 1962, estrapolandosi da un gruppo numeroso di giovani artisti riuniti con la sola intenzione di organizzare delle esposizioni presso la galleria gestita da C. Nova e R. Majoli. Il gruppo nato era autogestito per sottrarsi alla cosiddetta “dittatura dei mercanti”; per questo motivo, i testi che accompagnano i cataloghi sono il brano di A. Strindberg tratto da “L’isola dei beati”, e gli scritti del poeta Alberto Lùcia; il solo interpellato a dar voce teorica al gruppo, la cui attività si articola in alcune mostre ospitate nelle due sedi milanesi della galleria, e a Firenze. La prima esposizione avviene il 12 dicembre 1962 presso la Galleria Cenobio, annunciata da un volantino (formato cm. 2lx26,5) con riportato il brano di A. Strindberg.
Alla mostra partecipano: Ferrari, La Pietra, Sordini, Verga, Vermi e Menster, subito perso di vista. L’anno seguenti il gruppo, già ridotto a cinque membri: Ferrari, La Pietra, Sordini, Verga e Vermi espone a Milano alla Galleria L’Indice (15-31 maggio 1963) Il catalogo edito per l’occasione è il più completo che ci rimane di questa esperienza ( in formato cm. 14,5×19, pagg. 14) con testo introduttivo di Alberto Lùcia, e completato da note biografiche e riproduzioni in bianco e nero per ogni singolo artista. Subito dopo, ovvero il 31maggio 1963 si apre a Firenze la mostra alla Saletta del Fiorino, e in seguito la galleria organizza un’esposizione personale per ogni singolo artista.
I cinque componenti prendono avvio dalle ricerche di Lucio Fontana sviluppando l’indagine sul segno, il tratto puro tracciato dall’artista sulla tela, che rimane l’elemento unico della loro realtà pittorica anche negli anni seguenti. Vermi e Ferrari giungono al segno quasi contemporaneamente: il primo di ritorno dal soggiorno a Parigi, incomincia a segnare le superfici fatte di impasti di terra ancora informale, con delle stesure verticali di colore scuro, e sviluppa così un linguaggio pittorico che si manifesta attraverso segni di grande emozione lirica, senza nessuna concessione a estetismi o a ideali di bellezza fuorvianti; il secondo, riducendo le masse a superfici nere graffiate con la spatola, propone il segno come scrittura che perde tutti i connotati della parola e si realizza indifferentemente alla dimensione razionale.
Nello stesso tempo, La Pietra lavora proponendo graficamente il suo ideale di rottura contro ogni sistema precostituito giustapponendo due trame di segni diversi o due forme diverse. Sordini e Verga proseguono invece sulla linea della ricerca intrapresa all’interno del movimento Nucleare, attraverso i manifesti, (fra le proposte del quale si erano già evidenziati per una particolare grafia), nei quali la ricerca artistica si era fino a quel momento svolta, anche quella degli stessi Ferrari e Vermi. Comune è la tendenza a togliere, a ermetizzare l’immagine, trasformando la pennellata in segno grafico; fuori dalle rielaborazioni informali. La loro attenzione pone le basi sulle esperienze italiane precedenti di Maestri che avevano esaminato il segno, tra i quali Capogrossi, Twombly (cui guardava Sordini), Klee (che ispirava Verga), Rothko (al quale si rivolgeva Vermi), o Hartung (indagato da Ferrari) e gli altri quali Perilli, Novelli, Tancredi, Accardi, Sanfilippo o gli sviluppi informali di Tàpies e Dubuffet, rinunciando all’aspetto iconico-rappresentativo e riprendendo alla lontana l’automatismo surrealista. In realtà dopo un anno e mezzo, per via di piccole interferenze nella galleria, il gruppo si sciolse; i componenti hanno poi ampliato le loro ricerche in termini individuali mantenendo comunque un indirizzo segnico.
Se da un lato il Cenobio si inserisce perfettamente nel clima rivoluzionario di ricerche in opposizione all’informale, dall’altro se ne differenzia (da tali ricerche coeve) per aver tenuto in vita ancora la pittura, per aver indagato all’interno di essa allontanandosi dalla ridondanza e dall’espressività esagerata della pittura precedente. La poetica del segno e della scrittura sviluppata dai cinque artisti anticipa cosi gli esperimenti immediatamente seguenti di poesia visiva, a quelli che porteranno al minimalismo americano. Vermi scrive: “la critica ci ignorò quasi del tutto” anche se “quel lavoro fatto dal gruppo risultò essere importante, lo testimonia il fatto che altri operatori, anche illustri, dieci anni dopo fecero questo lavoro e furono (loro) invitati alle più importanti rassegne d’arte contemporanea”.
Probabilmente fu la mancanza di attivismo da parte dei protagonisti a farlo vivere lungamente in sordina, e oggi economicamente sopravvive grazie a “piccole residenze private” rappresentate da collezionisti o da gallerie. In seguito a questa esperienza, Ferrari e Vermi hanno sviluppato percorsi paralleli trovandosi spesso d’accordo artisticamente e teoricamente, l’evoluzione del loro lavoro ha finito con il coinvolgere la terza dimensione, Ferrari con “autoritratto” 1974-75, Vermi con le piattaforme e le sculture in ebanite, per poi recuperare il segno (”le memorie” di Ferrari, “Come era bella la terra” di Vermi). Per quanto riguarda La Pietra, il suo segno è diventato estremamente pulito e netto, ha definito immagini e figure, ha invaso superfici tridimensionali. Dall’altro lato Sordini e Verga, uniti a Vermi proseguono l’opera. Essi si presentano a Venezia alla Galleria Del Cavallino dall’11 al 21 febbraio 1964, (catalogo in formato cm. 19×20). Il medesimo testo di Guido Ballo accompagna la mostra di disegni tenutasi a Firenze alla Galleria Dell’Aquilone nel giugno dello stesso anno (catalogo, formato cm. 19x2O) dove Verga espone due tempere su fondo rosso e due su fondo grigio; Sordini articola segni curvi, chiusi in lievissimi circoli su fondi quasi monocromi.
Ora la mostra proposta da LeoGalleries di Monza (occorre significare che presso questa sede vive ufficialmente l’Archivio Arturo Vermi con il Comitato Scientifico) squaderna ad ampio raggio con una attenta e importante selezione di una quindicina di opere dell’epoca, la breve e intrigante storia di questo movimento votato al “segno”, e proprio per questo ancor più interessante da avvicinare e approfondire. Opere di significativo valore, ad iniziare dai diari e dai racconti di Arturo Vermi che sulle pareti della gallerie continuano ancora a parlarci.
Ma accanto alle opere di Arturo Vermi, l’una accanto all’altro, vivono le opere dei cinque artisti del gruppo, tutti accomunati da una preziosissima coerenza di idee, e del voler lasciare alla storia una lezione in cui essi interpretavano il segno; mossi in una direzione che sarebbe stata successivamente descritta come semantica, mirando alla riduzione del dipinto in uno spazio di ricerca preliminare del segno.
Carlo Franza
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Nato nel 1949, Carlo Franza è uno storico dell’arte moderna e contemporanea, italiano. Critico d’arte. È vissuto a Roma dal 1959 al 1980 dove ha studiato e conseguito tre lauree all’Università Statale La Sapienza (lettere, filosofia e sociologia). Si è laureato con Giulio Carlo Argan di cui è stato allievo e assistente ordinario. Dal 1980 è a Milano dove tuttora risiede. Professore straordinario di storia dell’arte moderna e contemporanea (Università La Sapienza- Roma) , ordinario di lingua e letteratura italiana. Visiting professor nell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e in altre numerose università estere. Giornalista, critico d’arte dal 1974 al 2002 a Il Giornale di Indro Montanelli, poi a Libero dal 2002 al 2012. Nel 2012 ritorna e riprende sul quotidiano “Il Giornale” la sua rubrica “Scenari dell’arte”.