Ebrei topi, nazisti gatti:l’Olocausto di Spiegelman

Ebrei topi, nazisti gatti:l’Olocausto di Spiegelman

Vedano al Lambro – In occasione della Giornata della Memoria, 27 gennaio, il comune di Vedano, con la Fondazione Fossati, Museo del fumetto, e la parrocchia Santo Stefano, hanno realizzato una mostra speciale: per la prima volta, infatti, viene allestita un’esposizione tratta dal libro «Maus» di Art Spiegelman, graphic novel che racconta la biografia di Vladek Spiegelman, un ebreo polacco sopravvissuto all’olocausto e padre dell’autore. Progettata e realizzata in prima mondiale, la mostra – che aprirà domenica 23 gennaio alle 10.30 – racconta la tragedia dell’olocausto in un fumetto dove gli ebrei sono topi, i nazisti gatti, i polacchi maiali, i francesi rane, gli americani cani e gli zingari farfalle.

Fedro c’entra solo in parte. Nonostante i topini, i gatti, i cani, i maiali, infatti, «Maus» non è una favola. L’origine dell’humus è nota: un’Europa inzuppata dalla fobia di una cospirazione giudaica diffusa dai Protocolli dei Savi di Sion, la cui fonte è un pamphlet del 1864 scritto dal satirista francese Maurice Joly, intitolato «Dialoghi agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu», e ispirato a sua volta al romanzo di Eugène Sue, «I misteri del popolo». Opere in cui gli ebrei non comparivano, ma che fornirono all’antisemita tedesco Hermann Goedsche lo spunto per «Biarritz», libro nel quale Goedsche – nel capitolo «Il cimitero ebraico di Praga e il Consiglio dei rappresentanti delle Dodici Tribù di Israele» – immaginava l’assemblea segreta dei rabbini che si riuniscono ogni cento anni per pianificare la cospirazione giudaica. Altrettanto note le conseguenze di quell’humus: l’olocausto di sei milioni di ebrei.

Di questo parlano gli animali antropomorfi di Art Spiegelman, i cui tratti semplici e apparentemente destinati ad un pubblico di bambini amplificano in realtà la violenza degli aguzzini, seguendo la voce di Vladek Spiegelman, padre dell’autore, che ormai vecchio e malato tra gli anni Settanta e Ottanta racconta al figlio la propria vita tra la città polacca di Sosnowiec, dove Vladek viveva con la moglie Anja prima nella casa dei genitori di lei e poi nel fatiscente ghetto ebraico o in rifugi improvvisati, e quindi nei campi di concentramento di Auschwitz e Dachau.

Da qui nasce la mostra che Art Spiegelman ha personalmente autorizzato, dalla vita di questi topolini-ebrei, metafora applaudita anche dall’attore teatrale Moni Ovadia che ha detto: «Il topo è visto come essere minaccioso. Il topo è quello che scatena nell’uomo la voglia di annientamento: il topo spaventa, terrorizza, è portatore di strane malattie e di affezioni. (…) così i nazisti vedevano gli ebrei». Una persecuzione che prosegue, a decenni di distanza, nel sentimento di vergogna di tanti sopravvissuti. Di un topino che dice: «La vita si schiera sempre con la vita, e le vittime in qualche modo vengono colpevolizzate. Ma non sono sopravvissuti i migliori. È stato tutto casuale!».
Luca Scarpetta