Desio: il figlio intervista il padresopravvissuto a un lager nazista

Desio - Da tanto tempo desideravo conoscere per bene i misfatti dell'ultima guerra ascoltandoli dalla viva voce di chi li aveva vissuti in prima persona. Chi meglio di mio padre? L'ho intervistato per raccogliere le sue impressioni e la sua versione dei fatti, dei quali mantiene ancora vivo il ricordo e la memoria. Guido Gelosa ha attualmente 87 anni, è uno dei pochi reduci dalla prigionia nazista che ancora vivono a Desio. Quella che segue è la storia delle sue vicissitudini.
Desio: il figlio intervista il padresopravvissuto a un lager nazista

Desio – Un figlio che intervista il padre a 65 anni dalla Liberazione. Memoria storica, testimone di giorni bui, dal fronte al campo di concentramento.

Da tanto tempo desideravo conoscere per bene i misfatti dell’ultima guerra ascoltandoli dalla viva voce di chi li aveva vissuti in prima persona. Chi meglio di mio padre potrebbe ricostruire per me la situazione di quei terribili momenti? Ho trovato finalmente il tempo di intervistarlo per raccogliere le sue impressioni e la sua versione dei fatti, dei quali mantiene ancora vivo il ricordo e la memoria. Guido Gelosa ha attualmente 87 anni, è uno dei pochi reduci dalla prigionia nazista che ancora vivono a Desio. Quella che segue è la storia delle sue vicissitudini.

18 gennaio 1943
E’ il giorno in cui sono partito per il fronte, avevo 19 anni, appena compiuti. Della guerra non sapevo nulla: la radio di regime raccontava quello che voleva. Le nostre conoscenze si limitavano a quello che si tastava con mano (i bombardamenti su Milano, gli sfollati, la fame, i morti al fronte…). Le uniche notizie vere arrivavano da mio fratello, che combatteva in Grecia.
Dove ti hanno mandato?
Ero capo drappello e dovevo portare sette soldati nei pressi di Treviso dove c’era un campo di equipaggiamento, addestramento e smistamento reclute. Si viaggiava sul treno, di notte, sdraiati per terra. Per sfamarmi avevo una gavetta piena di patate con prezzemolo, da dividere con mio fratello che ritornava sul fronte greco-albanese dopo una breve licenza.
E da lì?
Da Treviso a Fiume, imbarco sul mercantile Italia, con destinazione Ragusa, in Jugoslavia. Della missione non sapevo niente: l’unica raccomandazione era di lasciar stare le donne, come se questo fosse il problema maggiore. Solo arrivati a Ragusa si cominciò a capire qualcosa: dovevamo presidiare le zone conquistate dal nostro esercito dall’attacco dei partigiani slavi che si nascondevano tra le montagne e alimentavano la guerriglia, più o meno come fanno adesso i talebani. Noi pattugliavamo la costa slava, i tedeschi la Serbia.
Cosa mangiavate?
Caffè senza zucchero al mattino, brodo con pagnotta a mezzogiorno e minestra la sera. Alla domenica mezzogiorno pasta asciutta, tanto per santificare la festa.
Che aria tirava?
Nella miseria più totale, sabotaggi e imboscate dei “ribelli” slavi erano all’ordine del giorno. I paesi erano stati abbandonati e i pochi prigionieri “rastrellati” venivano caricati sui camion e spediti via. Non incontrammo resistenza da parte dell’esercito slavo. Mi chiedevo se esistesse
Dove alloggiavi?
La mia casa era la tenda che portavo in spalla insieme al mitra, i monti erano una pietraia unica dove gli scarponi si incastravano tra i sassi, notti all’addiaccio, un freddo biscia su in montagna e il mare che ogni tanto si intravedeva. Ma non potevi nemmeno rinfrescarti i piedi.
Veniamo all’8 settembre. Come era la situazione da quelle parti?
Nell’arco di un giorno erano cambiati tutti gli equilibri e le alleanze. Regnava una gran confusione: girava voce che la guerra fosse finita, l’obiettivo era solo tornare tutti a casa, come nel film di Sordi. Ci radunarono a Segna, un paese sul mare, dove ci incamminammo verso Fiume scortati da un solo plotone, nonostante i centoventi chilometri da percorrere a piedi. Quella unica sterrata che portava a Fiume raccoglieva tutti gli italiani sparsi per la Jugoslavia, Albania e Grecia che tentavano di rimpatriare. Il lungo serpentone di soldati in marcia si allungava di giorno in giorno.
Ma così disuniti non temevate la rabbia dei tedeschi?
In nove mesi non ne avevamo visto uno. Pensavamo solo all’Italia. Arrivammo a Fiume distrutti il 17 di settembre, di mattina. I più anziani furono trasportati di peso: eravamo allo stremo. Al pomeriggio l’aviazione nazista bombardò il ponte che univa Fiume a Buccari e le nostre speranze di rimpatriare morirono lì. Tedeschi e italiani rimasti fedeli al regime si erano coalizzati e ci intrupparono, dividendoci in centurie e caricandoci sul solito mercantile. A differenza dell’andata il tutto era condito da abbondanti sprangate e frustate. Ormai eravamo prigionieri dei nazisti. Mio cognato che era arrivato il giorno prima era riuscito a scappare, noi eravamo destinati alla deportazione. Il mercantile fece tappa a Trieste e poi sbarcò a Venezia: appena in laguna i più audaci si lanciarono dalla nave tentando la fuga a nuoto sfidando le mitragliate nemiche I sopravvissuti furono caricati su un treno. Ancora adesso, a distanza di quasi 70 anni, quando sento il fischio di un treno a vapore, (anche se in un film) mi viene ancora la pelle come quella di un cappone. Si trattava di un carro bestiame usato prima della guerra per il trasporto dei cavalli. Ci buttarono in 55 per ogni carrozza (precisione tedesca!) e quando ci aprirono, dopo tre giorni, eravamo già oltre confine. Il treno procedeva lentissimo e quando era fermo in zona italiana i contadini del Veneto, consapevoli del nostro destino, sfidando le fucilate nemiche, ci aprivano il portellone per permetterci di scappare nei campi. Qualcuno di noi riuscì a fuggire, altri ci lasciarono le penne. Ricordo alcuni sacerdoti veneti massacrati di botte perché ci avevano aiutato.
Ma come era possibile sopravvivere rinchiusi così a lungo?
Durante il tragitto dal porto al treno le donne venete (eroiche!) ci avevano rifornito di quel poco che possedevano (pane, frutta,ortaggi), per rendere sopportabile il nostro “viaggio.” La gavetta era il nostro bagno, la paglia ci serviva per sdraiarci a turno per riposare. La sosta in mezzo ai campi ci servì per prendere aria, acqua e anche una brodaglia. Dopo otto giorni e otto notti eravamo nel campo di concentramento di Prostki, in Polonia. Com’era? Sterminato, grande come tutta Desio. Si trattava di un campo di smistamento dei prigionieri verso altre destinazioni. Le baracche dove ci avevano sbattuto (18 soldati per baracca, sempre precisi i tedeschi!) erano residuati della guerra di Prussia, abilmente interrate e coperte da un tetto di fieno per mascherarle agli aerei nemici. Eravamo nutriti con tè al mattino, senza biscotti, ovviamente, e broda alle quattro del pomeriggio intrisa a volte di verze, a volte di rape. Le patate erano per i tedeschi, per noi erano un sogno proibito. Eravamo addetti al rifornimento di cibo e al recupero delle ortaggi nei terreni adiacenti il campo E lì mi capitò un bel guaio… Mi ero riempito le tasche di patate per portarle in baracca ( dovevamo pur mangiare). Un soldato se ne accorse e cominciò a spararmi a filo d’erba. Cercando di correre più veloce dei proiettili che sibilavano vicino a me, mi liberai del mio fardello nell’erba alta. Quando mi controllarono non trovarono nulla, ma vollero le mie generalità. Per mia fortuna avevo perso le mostrine, diedi il nome di un mio compagno che quel giorno era stato trasferito e mi defilai per una decina di giorni per il terrore di essere ucciso. I tedeschi ci odiavano perché noi, a differenza di altri prigionieri, eravamo i traditori. Peggio di noi stavano solo gli ebrei. Erano i più conciati di tutti: testa completamente rasata, vestiti solo di un pigiama a righe, scalzi, con appiccicato l’emblema della stella di David. Della loro fine non trapelava nulla e neppure potevamo sospettare. Ci rendevamo conto che erano particolarmente odiati e bistrattati, ma tutto il resto…..chi se lo poteva immaginare.
Come vi trattavano?
Ci insultavano continuamente chiamandoci, traditori, macaroni, ladri, bastardi di italiani e peggio. I prigionieri di altre nazioni erano rispettosi degli ordini per loro indole. Al contrario noi eravamo ingestibili: dove c’erano gli italiani c’era il casino più totale. Eravamo troppo orgogliosi per sottometterci al nemico e per questo le buscavano più degli altri. Quante volte ho sentito i tedeschi dire: “Quanto mai vi abbiamo fatto prigionieri”. Ancora adesso qualcuno tra noi reduci dalla prigionia sostiene scherzando che i tedeschi hanno cominciato a perdere la guerra quando hanno avuto la malaugurata idea di far prigionieri gli italiani.
Com’erano le vostre giornate al campo?
L’obiettivo quotidiano era di procurarci da mangiare, facendo sparire tutto ciò che si poteva barattare col cibo. Di giorno si spazzava tutto quello che capitava, di sera il campo di concentramento si trasformava in un grande mercato. Si scambiavano le patate con gli accendini, le sigarette con le rape, tutto di nascosto. Di notte poi smontavamo le traversine di legno delle baracche per fare il fuoco e scaldare il brodo di rape. Le baracche presentavano tutte grossi buchi, finché una addirittura crollò. Per punizione ci fecero dormire all’aperto per tre notti con tanto di sprangate e staffilate. Durante gli otto giorni successivi nessuno riuscì a piegarsi dal mal di schiena. Io addirittura fui gettato in una vasca di raccolta dell’acqua piovana, in Polonia, a novembre, Stavo per morire quando una mano pietosa di un soldato tedesco mi allungò uno staffile (quello che usavano per frustarci) ; mi aggrappai con la forza della disperazione e con l’istinto di sopravvivenza e quel giorno mi sembrò bello anche lo staffile.
Poi foste trasferiti in un altro campo
A Bremenvòrde, e durante il viaggio ci rendemmo conto di cosa stava succedendo. Le città che attraversavamo (Brema, Hannover, Amburgo) erano completamente rase al suolo e dalle macerie spuntavano solo le ciminiere delle fabbriche che avevano resistito ai bombardamenti. Il nuovo campo era peggio degli altri. In pieno inverno il freddo era insopportabile (la guerra ci aveva portato via anche i pastrani) e non c’era nulla da mangiare. Si dormiva ammucchiati per terra e c’era tanta tensione anche tra di noi. Anche i tedeschi massacrati dalle bombe alleate cominciavano a passarsela male. Fortunatamente in un magazzino recuperammo delle coperte abbandonate che cominciai a trasformare in una specie di saio da indossare nascosto sotto la camicia e il maglione. Tutti mi chiedevano di cucire il saio per proteggersi dal gelo. Per fortuna da anni facevo il tappezziere, ed ero bravo nel taglia e cuci. Passai una settimana intera modellare finti cappotti per i miei compagni.
Quali erano le tue mansioni?
Eravamo migliaia di italiani costretti a ripulire la città di Amburgo massacrata dai bombardamenti. Dovevamo estrarre i morti dalle macerie, recuperare i mattoni dalle case abbattute dalle bombe,e così via. La minaccia quotidiana era: “Ve ne andrete solo quando avrete ricostruito tutto quello che i vostri alleati hanno distrutto.” Dopo un po’accettai di lavorare in falegnameria a fare persiane. I tedeschi ci maltrattavano perché lavoravamo male, ma con tutta onestà nessuno di noi aveva voglia di dannarsi per loro. Quando il lavoro fatto non era loro gradito mi gridavano minacciandomi con la frusta: “Possibile che tu non sai far niente? Che mestiere facevi al tuo paese?” Sapevo solo due o tre parole in tedesco, ma una di queste la usavo spesso: ” Apotheke, il farmacista-rispondevo-. Non so fare altro.” Masticavano amaro, ma almeno non mi frustavano.
Allora trovasti tuo fratello..
Nonostante la censura e i tempi biblici della posta mia madre riuscì a informarmi che anche mio fratello era prigioniero ad Amburgo. Dopo numerose peripezie lo trovai. Stava peggio di me e mi occupai di lui per sfamarlo e evitargli lavori pesanti. Gli portavo la mia razione di cibo, mentre io mi nutrivo svuotando tutti i giorni la ciotola del cane del nostro custode, sfidando i morsi di quel pastore tedesco.
Si capiva che la guerra volgeva al termine?
I tedeschi non mollavano, ma la città di giorno in giorno veniva sempre più rasa al suolo dagli aerei inglesi della RAF. Ad Amburgo nei primi mesi del quarantacinque c’erano solo macerie: nostro unico obiettivo era di sopravvivere alle malattie e ai bombardamenti Fummo liberati il 9 di maggio. Ad Amburgo arrivarono per primi gli inglesi che patteggiarono la resa col comandante della città. Poi entrarono in città i russi e gli americani. Gli inglesi cominciarono a rimpatriare i loro connazionali. Noi fummo costretti ad aspettare il nostro turno, fino al mese di Agosto.
Alla fine, senza retorica, come vuoi concludere questa storia?
Ho sempre pregato il Signore di non coinvolgere i miei figli in una qualsiasi futura guerra. I maltrattamenti che ho subito e gli orrori cui ho dovuto assistere bastano e avanzano per i secoli venturi.
Gabriele Gelosa