Monza – Qualcuno si ricorda di John Coltrane? Lui è stato quello che tra una seduta di yoga e un conato mistico ha messo in piedi “A love supreme”. Prima è dopo c’è un abisso: il passaggio dal jazz come musica di intrattenimento e poco altro alla definitiva consacrazione come musica colta. Non che fosse il solo: lo facevano in tanti. Ma cercare in quello scorcio di primi anni Sessanta qualcosa che più e meglio abbia allargato la percezione del jazz per includerla nei libri di storia sarebbe difficile, se non impossibile. È passato mezzo secolo e allora bisogna riordinare le idee.
Come fa Riccardo Fioravanti, che rimedia ai danni e alle canonizzazioni del tempo. Togliendo di netto, quasi una cesura, un nodo di Gordio, il sassofono. Per poi rimettersi su quegli spartiti e su quelle armonie diventate rapidamente standard o modello per ricostruire un capostipite del jazz contemporaneo. Ancora oggi, cinquant’anni dopo. Ci era già riuscito: aveva preso Bill Evans e ne aveva fatto un project diventato immediatamente songseller. Ora è il turno del sax: con un trio e un gruppo di performer della tromba di assoluto rilievo, il contrabbassista ha presentato ieri sera a Milano “Coltrane project”, raccogliendo attorno a sé Andrea Dulbecco (marimba e vibrafono), Bebo Ferra (chitarre), Dino Rubino, Fabrizio Bosso e Giovanni Falzone (tromba e flicorno).
Parte da lì, Fioravanti, togliendo a Coltrane i fondamentali: addio sax, un tappeto di basso, percussioni e chitarre che fanno da teatro ai velluti della tromba. Anzi, delle trombe. «Il punto di partenza è stato lo stesso di Evans – racconta il musicista che ha scelto la Brianza per vivere – togliere lo strumento principale. Anche se con Evans è stato più facile, perché Coltrane è più carismatico, il rapporto delle partiture è più energetico con il sassofono». Il risultato, eliminati anche piano e batteria, è una «spinta minore ritmica, una maggiore presenza del tempo nel vibrafono e nella marimba e poi il sostegno della chitarra, dando spazio alla tromba come strumento maggiore».
Le trombe sono tre, quelle di Rubino, Bosso e Falzone, altro nome ricorrente intorno a Monza. La scelta dei brani da eseguire in studio «è stata abbastanza lunga – racconta Fioravanti – perché una volta agli strumenti qualcosa funzionava e qualcosa no». Poi la sintesi è arrivata e sono arrivati gli arrangiamenti, soprattutto dello stesso contrabbassista, poi uno di di Ferra, uno di Dulbecco. E qualcuno a più mani. Ma il baricentro resta la lezione di Coltrane, a partire da Acknowledgement, cioè il riconoscimento, o l’ammissione, che è anche il movimento iniziale di “A love supreme”: quattro note di cui due ripetute, che nell’originale sono almeno sette minuti e qui non arrivano a due, rappresentando un’ouverture che è già una dichiarazione d’intenti. Poi Resolution impression, Gentle Gianti steps, Moment’s notice, Descent e giù fino a Central park west per undici tracce.
Un album che sa già di mito per ribadire quanto l’Italia sappia fare jazz almeno quanto gli Stati uniti, e con pochi altri eguali. «Un giorno chiesero a Duke Ellington perché ci fosse Tony Scott, che era italiano di Sciacca, in una band che si presentava al Cotton club come “di soli musicisti neri”» racconta il musicista, che con Tony Scott, ai tempi mitici del Capolinea, ha suonato, e che forse dallo stesso clarinettista ha ascoltato la leggenda. «Ma lui non è bianco, ha risposto allora Duke, è italiano», ricorda Fioravanti. Che è italiano, e suona jazz. E sa come si fa.
Massimiliano Rossin