Alberto Gianfreda insegue una purezza della materia fatta a Monza di marmo e ferro. Massimiliano Gatti scava nella superficie dell’Iraq a caccia di contradditori reperti di ieri e oggi e li fotografa. Carola Ducoli interpreta i colori di Kandinsky con il proprio corpo e li consegna alla carta sensibile. Poi c’è chi riclassifica le arti applicate soffiando il vetro, come Alexandra Muresan, oppure crea instantanee del sonno e lo registra (Maya Quattropani), porta la corsa della musica sulla corsa di un fiume come ha fatto Virginia Zanetti e interpreta battaglie e vittorie in una bandiera totalmente falsa e sconfitta (Mario Scudeletti). Oppure c’è chi, più semplicemente, cerca nuove strade per la pittura riscrivendo materiali e immaginario, come Giovanni Ozzola.
Cercare di trovare un orizzonte certo è non capire di cosa si sta parlando. Perché esiste un confine sottile e impalpabile tra il disordine e un nuovo ordine. E il lato divertente del problema è che non c’è modo di distinguerli. Tanto più se l’urgenza di classificare ha un richiamo più forte della necessità di comprendere. Il rischio è tutto lì: nel battere il passo sulle strade dell’arte contemporanea chiedendosi in quale scaffale della propria memoria trovare il vocabolario adatto per leggere quello che si incontra. E non, per esempio, quale lingua sia necessario imparare per farlo.
“Pittura, scultura, performance, fotografia, installazione sonora e quella polimaterica, arte relazionale, reperto oggettuale, video arte, earth-work e via di seguito lungo un’inesausta diversificazione linguistica” scrive il coordinatore scientifico della Biennale, Daniele Astrologo Abadal, cercando di rendere conto della babele semantica dell’arte contemporanea: e non è che un parziale tentativo di elencare l’alfabeto di una lingua che negli ultimi anni – dopo la riscoperta della pittura, dopo la rinascita della scultura, dopo l’esplosione della fotografia – ha deciso di decretare legittima una sola regola: niente più regole.
L’implosione dei codici narrativi non è nuova: ha un secolo e più di vita e per trovarle un’icona, bisogna risalire fino a un orinatoio rovesciato da Marcel Duchamp e firmato Mutt (il fabbricatore della ceramica). Poi sono arrivati i fuochi d’artificio delle avanguardie storiche, fluxus, il corpo come forma d’arte, l’arte concettuale, i movimenti del secondo Novecento, l’ironia dissacrante dell’ultimo scorcio di secolo e le mareggiate delle riscoperte più o meno estemporanee delle fenomenologie dell’arte.
Non è questo il punto, oggi: tutto il secolo scorso ha rincorso affannosamente la ratifica di un nuovo codice perenne (destinato a durare in realtà uno sfoglio di pagina), mentre gli anni dieci del nuovo millennio hanno messo nero su bianco un punto di vista nuovo. Dove il punto non è la ricerca di nuovi linguaggi – dell’arte – ma la condivisione e l’accettazione del fatto che non esistono più gerarchie tra i linguaggi. Né percorsi netti, precisi, incontaminabili. Né verità valide più della loro rappresentazione.
Francesca Pasquali ieri ha scelto le cannucce, oggi usa gli spolverini da ragnatele. Saba Masoumian crea diorami fatti di incubi. Elisabetta Falanga ricrea la stanza di suo fratello e ci mette dentro una collina d’erba e viva che cresce e si trasforma con l’ambiente che la circonda. Simona Paladino si limita a infilare delle matite dentro del gesso e crea con la complicità dell’osservatore delle tracce che sono, per natura, segni, comunicazione. Sara Benaglia innesta tra loro due cactus. Non esiste una scala di valori, tra loro: esistono solo una ricerca formale senza confini definibili e la richiesta di condividere una scelta a partire dalla comprensione dji un oggetto, di un soggetto, di un linguaggio. Che variano in continuazione.
Se un secolo fa Walter Benjamin decretava la morte dell’aura dell’arte per la riproducibilità tecnica dell’arte, cent’anni dopo il problema non esiste più: è la chimica degli elementi che compongono la creatività a raccontare quanto mistero – e quanta aura – possano ancora incarnare l’arte e definirne l’obiettivo fondamentale, che non è spiegare ma rappresentare. In fondo l’arte contemporanea vive di un paradosso sistematico: quello per cui parla del presente, al presente, per essere compresa (o più spesso accettata) il giorno dopo.
Il nuovo ordine – il cosmos, avrebbero detto i greci, come quello esploso sull’ardesia di Ozzola – è la sua negazione, capace di distogliere l’attenzione dal linguaggio per trasferirlo nell’immaginario: la domanda non è “se questa è arte”, ma “come questa è arte”. “Le logiche operative di questi anni fanno i conti con una situazione non più̀ legata alle speranze di novità̀ ma al sovrapporsi di slanci diversificati che sfidano la vertigine del vuoto – scrive il curatore Claudio Cerritelli presentando i suoi artisti – l’assenza di riferimenti, il disagio esistente tra le ragioni poetiche del fare arte e le sue strutture divulgative. Le ricerche sembrano non aver confini, comunicano mutamenti dove opposte visioni si allineano senza mai toccarsi, ogni visione fluttua nella sospensione dei significati”. Che devono prima di tutto spazzare con l’avambraccio sul tavolo dei luoghi comuni, quelli che per i francesi – e Flaubert – sono les idées reçues, le idee ricevute. La Biennale giovani prova a raccontare questo: il futuro al presente