Premio Brianza 2015, l’inedito “L’odore della terra” di Fabrizio Bassani

VIDEO Il premio - Il Premio Brianza 2015 per i racconti inediti sul tema “Sapori e saperi di Brianza, viaggio in una terra che cambia” è stato vinto da Fabrizio Bassani con “L’odore della terra”. Ecco il racconto integrale.
Il racconto “L’odore della terra” ha il profumo di Mezzago
Il racconto “L’odore della terra” ha il profumo di Mezzago SPINOLO

Il Premio Brianza 2015 per i racconti inediti sul tema “Sapori e saperi di Brianza, viaggio in una terra che cambia” è stato vinto da Fabrizio Bassani con “L’odore della terra”. L’opera è stata valutata da una giuria di giovani, composta dagli studenti della 5B del linguistico Mosè Bianchi e dalle 1D di agraria dell’istituto Mapelli. Il premio Brianza, alla nona edizione, è organizzato dall’Associazione mazziniana italiana.


L’odore della terra.

“La mia famiglia è stata, nel secolo scorso e, non so per quanti secoli prima di quello, una famiglia contadina della Brianza. Mio nonno pensava che io, suo unico nipote maschio, dovessi essere educato al lavoro nei campi per continuare nel solco della tradizione di famiglia. Così, negli anni dell’adolescenza, prima dell’inizio della scuola, trascorrevo il mese di settembre ospite dei miei nonni, nella loro grande cascina appena fuori Mezzago, un piccolo paese sulla strada che da Monza porta a Trezzo sull’Adda. La grande aia, il fienile, l’alto porticato ingombro di attrezzi, sacchi di grano, macchine agricole e poi le stalle, l’orto e la piccola vigna, erano i palcoscenici su cui ero tenuto ad mostrare la mia, in verità, molto incerta vocazione per il lavoro agricolo.

Quella mattina, come tutte le mattine, di ogni giorno della settimana, compresa la domenica, il nonno era venuto a svegliarmi alle cinque del mattino senza mostrare nessun imbarazzo di fronte al mio sonno ancora profondo, per mungere le vacche e andare poi a tagliare l’erba ancora umida nei campi. Seduto sul pianale del carretto trainato dal nostro cavallo, con la schiena appoggiata alla fiancata, ancora mezzo addormentato, subivo passivamente le scosse e l’irregolare dondolio che le grandi ruote raggiate generavano procedendo sulla strada sterrata che portava a uno dei nostri poderi. L’aria era fresca e una pallida bruma si alzava sopra l’erba che, ricoperta di rugiada, riluceva illuminata dai primi raggi del sole. Le grandi distese di campi coltivati a mais, ai lati della strada delimitavano l’orizzonte che sfumava, lontano, davanti a noi, in un cielo azzurro pallido e senza nuvole. Il nonno era taciturno , più per timidezza che per deliberata scelta.
Solo di tanto in tanto mi impartiva delle stringate istruzioni sui compiti che, mano a mano, durante la giornata, mi assegnava. Mostrava comunque verso di me una predilezione che si manifestava spesso in burberi rimbrotti, ma anche con velate parole di compiacimento per il mio volenteroso impegno nel lavoro. Parole confidate alla nonna, che, a sua insaputa, mi riferiva compiaciuta.

Una volta giunti a destinazione, cominciai a liberare il cavallo dai finimenti. Il nonno, sceso dal carro, sistemò alcuni attrezzi nel cascinale poco distante e poi si diresse camminando verso il centro del campo. Lo vidi poi piegarsi sulle ginocchia e in questa posizione guardare davanti a sé. Il gesto che mi aspettavo compisse, si ripeté. Affondò infatti una mano nella terra, né sollevò una manciata e la avvicinò al naso, aspirandone il profumo. Il tempo mi sembrava scorrere lentamente in quei momenti, come lentamente vedevo la terra scura disperdersi, quasi controvoglia, fra le dita della sua mano semiaperta. Non avevo mai osato chiedergli perché, ogni giorno, ripetesse quel gesto. Mi avvicinai, camminando senza far rumore. A una certa distanza da lui mi piegai anch’io sulle ginocchia e presi un pugno di terra avvicinandolo al naso. Un forte odore di radici e di erba bagnata mi riempì le narici . In quel momento il nonno si girò e mi vide. Subito si alzò dirigendosi verso di me che, come sorpreso in flagrante di chissà quale colpa, in un attimo mi ero già rimesso in piedi gettando via la terra lontano.

Avvicinatosi mi disse: “Andiamo a lavorare adesso…” ma dopo un momento aggiunse a voce più bassa: “Ricordati sempre di quell’odore. E’ l’odore della terra…della nostra terra”

Per decenni nella mia vita da adulto di quell’odore, in realtà, me ne sono ricordato poco o niente. Con l’ansia di sfuggire a un destino che credevo di non essermi scelto, e che anche mio padre, a suo tempo, aveva rifiutato, per anni piegai la testa sui libri con il malcelato desiderio di affrancarmi dalle mie umili origini contadine. Mentre frequentavo il terzo anno dell’università incontrai Maria e dopo solo sei mesi, innamorati come due adolescenti, ci sposammo. Nostro figlio, Andrea, nacque dopo un anno, rendendo ancora più grande la nostra felicità. Il nonno benedisse la mia famiglia e la vita felice che mi attendeva, anche se il suo sogno di vedermi lavorare nei campi si era ormai infranto. Ma noi esseri umani non ci rendiamo conto del dolore che la vita ci può riservare finché non lo sentiamo bruciare sulla nostra pelle. Maria si ammalò quando Andrea era solo un bambino e dopo un anno di sofferenze ci lasciò per sempre. Andrea crebbe, sballottato come una pallina da ping pong fra nonni e zii e in compagnia di un padre distratto, sempre preso dal lavoro, perennemente in giro per il mondo.

“Diventerà grande Andrea, come tutti e mi ringrazierà di tutti i sacrifici che sto facendo per lui” mi giustificavo. Me lo dovettero dire che Andrea si drogava. Io non me ne ero neanche accorto.

Da anni ormai la sua giovane vita si stava trascinando senza scopo, fra decine di litigi violenti con me, decine di comunità terapeutiche abbandonate senza nessun risultato, decine di ricoveri in strutture sanitarie costose ed esclusive per cercare di sconfiggere “la bestia” come la chiamava lui. Era stato anche in prigione, un anno. Tutto inutile, il baratro si avvicinava sempre di più. Dopo anni di calvario, disperato e deluso, ormai quasi sul lastrico, decisi di lasciare tutto, lavoro, casa in città, amanti più o meno fisse e contro il parere di tutti, costrinsi mio figlio a seguirmi al paese, nella vecchia cascina, che era ancora proprietà della mia famiglia. Non avevo idea di ciò che avrei fatto. Sapevo solo che non volevo più che io e lui soffrissimo ancora. Trovai la cascina ancora in piedi, ma ormai fatiscente. Mi misi al lavoro aiutato da qualche amico e rimisi in sesto una piccola parte della casa e del grande portico. Mio figlio non sprecò neanche un grazie quando gli feci vedere la camera che gli avevo preparato, imbiancata di fresco e arredata in uno stile semplice, rigorosamente “made in Ikea”. Nei campi tutt’intorno, seminati a mais o soia, la presenza umana si limitava a passaggi saltuari di qualche moderno agricoltore che, in alto, chiuso nella torretta del suo enorme trattore, scrutava diffidente il nuovo vicino, che aveva rimesso un po’ a posto quella cascina cadente, meritevole, secondo lui, solo di essere rasa al suolo.

Andrea fuggiva spesso da casa e io andavo a riprendermelo ovunque fosse. Perseguitavo con minacce e denunce gli spacciatori che ronzavano in paese, passavo le notti in ospedale al suo fianco durante le violente crisi di astinenza che lo tormentavano. Diventai persino amico del brigadiere dei Carabinieri della stazione di Bellusco tante erano le volte che ero passato a riportarmelo cocciutamente a casa.

Cominciai a lavorare in quello che era rimasto del nostro vecchio orto, più per dimenticare le mie pene che per altro. Vangavo, zappavo, seminavo, sotto il sole o la pioggia, fino a stordirmi di stanchezza. Andrea ce lo trascinavo quando era più in sé, ma spesso dopo pochi minuti si allontanava adducendo scuse poco plausibili che sapevo essere bugie. In paese i miei amici di quando ero un ragazzo, continuavano ad aiutarmi. Gli facevo pena credo. Molti di loro si erano gettati con passione in una nuova avventura.
L’ “asparago rosa di Mezzago” era diventato la loro icona. Avevano fondato una piccola cooperativa, e cominciavano a fare pubblicità alla loro iniziativa che faceva rivivere una tradizione agricola del paese. Mi feci convincere e, con la loro indispensabile collaborazione, anch’io misi a dimora le radici della pianta dell’asparago. Andrea continuava a gettare via la sua esistenza, ma io non mi davo per vinto e speravo che accadesse qualcosa che aiutasse mio figlio a ritrovare sé stesso. Ogni giorno andavo a vedere il terreno dove avevo messo a dimora le radici degli asparagi, anche se sapevo che non avrei potuto raccogliere nulla prima di due anni. Quando mio figlio mi vedeva avviarmi per la mia quotidiana visita al campo mi provocava con parole sprezzanti “Dove vai ancora? Sempre a guardare quei mucchi di terra! Non crescerà niente. Non sei mica un contadino tu! Non sei capace! Lascia perdere!”.Io tacevo e tenevo duro.

Ogni giorno ci andavo comunque al campo degli asparagi, come per esercitare un rito, un specie di invocazione alla fiducia e alla speranza. Nelle giornate limpide, alzando lo sguardo, lontano, verso nord, vedevo il Resegone e più a ovest la Grigna. Andrea un po’ alla volta smise di deridermi e mi lasciò fare, senza dire più nulla, vinto dalla mia costanza. Una sera, mentre eravamo a tavola, interruppe il suo silenzio sull’argomento.

“Ma chi te lo fa fare? Cosa speri di ottenere?”.
“ Voglio crederci e basta. Voglio che ciò che desidero accada e sono disposto a penare per ottenere il mio premio. Questa piccola speranza mi riempe la vita. Non mi è rimasto molto altro…”. “Speranza sempre speranza …ti riempi la bocca di quella parola ogni momento. Ma dove la vedi ’stà speranza ? Cos’è sta speranza.? Una cosa che si mangia?. Io non la vedo e poi ho perso la voglia di cercarla! Te la lascio tutta a te la speranza. Tanto comunque non crescerà niente!” e così dicendo si alzò e se ne andò in camera sua sbattendo la porta.

Di lì a qualche giorno andai al campo come al solito. Dopo più di un’ora che ero lì sentii dei passi alle mie spalle. Era Andrea. Si sedette al mio fianco. Rimanemmo così per parecchio tempo senza dire nulla. “E allora ’sti asparagi? Come vanno?” disse a bassa voce.” E’ presto per vedere qualcosa” risposi. “ E stare qui seduto serve a qualcosa?” “ Non lo so, forse non serve a niente, ma se gli asparagi cresceranno non voglio perdermi quel momento.”. Mi avvicinai al mucchio di terra che conteneva le radici e ne presi una manciata fra le dita. Mi ricordai all’improvviso del gesto che il nonno ripeteva tutti i giorni in campagna prima di iniziare a lavorare. Mi ritornarono in mente le sue parole.. Avvicinai la terra al naso e aspirai. Mi sembrò di sentire un odore che conoscevo, che non avevo mai dimenticato. “Vieni” dissi ad Andrea. Lui si avvicinò diffidente. “Senti quest’odore” dissi, avvicinando la terra al suo naso. “Stai fermo. La prendo da solo la terra” rispose brusco.
Dopo averne tirato sù una manciata ne aspirò anche lui l’odore. “E allora ? Odora di terra. Nient’altro mi pare. Cosa dovrei sentire?”. “Niente…. non importa. Andiamo a casa adesso. Ti preparo qualcosa da mangiare, ti va? “ “Ok” -disse – alzandosi di scatto. Rimasi sorpreso da quell’ Ok. Credo che erano anni che non glielo sentivo pronunciare quando si rivolgeva a me.

Da quel giorno Andrea veniva più spesso nei campi. Si sedeva al mio fianco e rimaneva in silenzio. Un giorno mi disse all’improvviso “ Ti ricordi ancora della mamma? “ “ Bè ,certo…” risposi imbarazzato. Mentivo e Andrea lo sapeva. Lo aveva sempre saputo “Io non me la ricordo. Non mi ricordo proprio più nulla di lei” continuò. Quando gli misi una mano sulla spalla lui si girò verso di me e mi abbracciò un momento solo, che a me non sembrò finire mai.

Andrea cominciò a interessarsi al lavoro nell’orto e prese anche ad aiutarmi nella cura del campo degli asparagi. Lavorava senza lamentarsi mai. La sera, stanco, crollava addormentato sul letto. Conobbe i miei amici e si offrì di aiutarli a reclamizzare i loro asparagi nel circondario. Io mi godevo solo con apparente indifferenza il suo procedere lento e difficoltoso verso una vita più degna. E poi, senza preavviso, comparve Marta: un raggio di sole dopo la tormenta. Bionda, minuta, sempre sorridente, era la figlia dell’ortolano che , in paese, si era offerto di rivendere i nostri asparagi. I suoi occhi ridenti, la sua voce allegra, le sue parole semplici piene di coraggio, facevano venir voglia di stare ad ascoltarla. Anche Andrea cominciò ad ascoltarla. Molto più di me. Una sera li vidi sotto il portico della nostra cascina che chiaccheravano uno vicino all’altro. Quella sera mi fecero compagnia le lacrime che da tanto tempo avevo dimenticato di versare..

Nel cortile del Palazzo Archinti, in centro al paese, e nella grande sala al pianterreno la gente è contenta e mangia di gusto ciò che la cucina della Sagra sforna, con l’asparago come protagonista. Seduto in un angolo all’ombra tengo d’occhio il mio nipotino che dorme placido nel passeggino nonostante il trambusto. I suoi genitori, Andrea e Marta, sono indaffarati. La cooperativa sociale agricola che hanno fondato ha avuto un grande successo. I ragazzi e le ragazze che la animano con passione ed energia, vivono tutti insieme nella nostra grande cascina che abbiamo finito di sistemare con il loro aiuto. L’asparago di Mezzago, anche per merito loro, è ormai un emblema delle colture di pregio della Brianza e per di più a chilometro zero. Conosco una per una le loro storie difficili: droga, violenza, carcere. E le loro difficoltà, lo so, non sono di certo ancora finite. Mio figlio non vuole che racconti loro la sua storia e come la vita, attraverso l’amore per la terra e per Marta, lo abbia riammesso nel suo circuito.

“Ogni persona è diversa dall’altra papà,- mi ha detto una volta -”ed è inutile dare consigli, che sembrano solo sentenze. Proprio da te ho imparato a stare vicino alle persone in silenzio, senza proclami. Io e Marta viviamo, lavoriamo, ci divertiamo con loro e piangiamo poi le loro pene come fossero nostri fratelli, e intanto lavoriamo,coltiviamo i nostri asparagi e un sacco di altre buone cose della terra. Noi siamo contenti così. Non vogliamo, né forse possiamo fare altro.” Andrea e Marta adesso vengono verso di me. Ridono e scherzano fra di loro. “Papà vai a mangiare. Il bambino lo guardiamo noi adesso. Ti ho già fatto preparare un bel piatto in cucina. Vedrai che bontà i nostri di asparagi, altro che quelli che coltivavi tu!”

Nell’androne fumoso e vociante della cucina mi sono seduto un po’ in disparte, su di una panca, con il mio piatto di asparagi sulle ginocchia per non dare fastidio a quelli che ci lavorano. Dalla sala da pranzo provengono degli applausi e delle urla. Non comprendo bene tutte le parole, ma una serie ininterrotta di “ Bravo Andrea, brava Marta !!” quelli sì che riesco a sentirli. Poso il piatto e mi affaccio dalla porta che dà sulla sala. Tutti i ragazzi della cooperativa gli sono intorno e li stringono in un festoso abbraccio. La gente ai tavoli, nella grande sala, applaude convinta.

Torno in cucina. Le punte degli asparagi fumanti, dentro il piatto, si mimetizzano sotto le uova al tegamino. Il vapore profumato della pietanza mi riscalda il volto. Aspiro con il naso e dentro quel profumo di cibo buono e semplice mi sembra di sentire anche un odore di terra. La nostra terra, che, bagnata dal sudore e dal sacrificio, e resa ancora più fertile da un piccolo rivolo di speranza, non ci ha tradito. Il nonno lo aveva sempre saputo.

Oggi, anche se non lo confesserà mai , lo sa anche Andrea”.
Fabrizio Bassani