Monza e Mosè Bianchi, Paolo Biscottini: «Non è tardi per dedicargli un museo»

L’ex direttore dei Musei civici di Monza (poi Palazzo reale a Milano e il Museo diocesano) racconta l’ultima grande mostra di Mosè Bianchi in città, nel 1987, e rilancia: «Lui rappresenta la forza di Monza, non è tardi per dedicargli un museo».
“Lavandaia” di Mosè Bianchi
“Lavandaia” di Mosè Bianchi

«Io ero allora molto giovane. E preso dal desiderio di fare mi sono imbattuto in Mosè Bianchi»: a parlare è Paolo Biscottini, direttore dei Musei civici di Monza negli anni in cui i Musei, intesi come uno spazio da visitare e vivere, venivano chiusi. Bisogna tornare a lui e alla metà degli anni Ottanta per ritrovare l’ultima mostra monzese dedicata a Mosè Bianchi – non una mostra qualsiasi, ma quella che in una volta ha riletto il modo di costruire esposizioni d’arte in Italia, ha rilanciato il gusto per l’Ottocento lombardo, ha gettato le basi per la riscoperta vera, piena dell’artista monzese. Anno: 1987. Luogo: la Villa reale, primo piano nobile. Da marzo a maggio, poco tempo, tanti risultati.


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Com’è andata?

Io Mosè Bianchi non lo conoscevo quasi. Ma quando ho incontrato le sue opere meravigliose ho capito che lui era Monza: non solo perché era un grande artista dell’Ottocento, ma soprattutto perché era stato capace di rappresentare la forza di Monza di sapere cambiare e di sapere ripartire.

Ottima radiografia: ma com’è stata organizzata?

Allora era più facile lavorare. E l’amministrazione comunale mi ha sostenuto. Abbiamo occupato tutto il piano nobile della Villa reale. Ho avuto la possibilità di girare tra collezioni private importanti e tutti sono stati molto generosi. Mi sono trovato a contatto con una rete che credeva in un progetto. Come gli architetti Tanzi che hanno regalato l’allestimento, Alberto Montrasio che mi ha insegnato come le cose si possano fare, se ci si crede.

E poi?

E poi qualcosa che allora non era scontato, né normale. La Rinascente stava ristrutturando gli spazi di Monza. Di soldi, grazie agli industriali, ce n’erano. Ma non tutti. Allora sono andato alla Rinascente e ho chiesto di parlare con il direttore. Lui ha detto “bello” ma mi ha rimandato a Milano. E lì ho parlato con l’amministratore delegato che ha accettato di sponsorizzare la mostra quando relazioni tra pubblico e privato non erano l’abitudine. Mi ha detto che si poteva fare, a una condizione: portare alcune opere nei grandi magazzini di Monza. Non è stato facile, ma siamo riusciti a organizzare la mostra portando alla Rinascente le opere che raffiguravano la vita di Monza.

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Quindi avete anticipato di vent’anni le relazioni tra pubblico e privato che oggi, almeno in parte, sembrano scontate.

Non solo: allora Rinascente era di Fiat. La sponsorizzazione ci ha portato la copertura assicurativa gratuita, con Toro Assicurazioni, perché era di Fiat; il catalogo gratis con Fabbri, che era di Fiat; e la comunicazione della mostra, nel 1987, di Luca Cordero di Montezemolo, che allora se ne occupava per il gruppo.

Ne sono passati di anni…

E bisognerebbe fare ancora mostre così. Soprattutto in Villa reale, ora che è disponibile fine in fondo. Quella mostra ha fatto crescere l’interesse verso l’Ottocento lombardo anche dal punto di vista del mercato. Poi si è spento, ma il mercato funziona così. Significa comunque che le potenzialità ci sono. Subito dopo la mostra sono partito per Londra con un portafoglio finanziato dagli industriali e dal Comune per acquistare opere dalla collezione Bernasconi. Un caso unico.

Quella mostra ha creato anche un nuovo interesse?

Ha dato grandi frutti. Studi di qualsiasi genere. Io ho diretto una collana dedicata all’Ottocento lombardo, ho firmato il catalogo ragionato delle opere di Mosè Bianchi. Ha dato grandi frutti negli studi e ha dato grandi frutti in città: non va dimenticato che il Serrone come sede espositiva è nato subito dopo la chiusura di quella mostra. E ha dimostrato come si potesse e dovesse lavorare sulla cultura.

Però sono passati trent’anni.

E sono convinto che le opere che sono tornate alla Gam potrebbero essere richiamate a Monza. Non è importante la proprietà dell’arte, ma saperla valorizzare. C’è ancora tempo per fare un museo dedicato a Mosè Bianchi e un centro di studi dell’Ottocento lombardo di cui la città potrebbe essere protagonista. Perché lui tra gli artisti lombardi è quello che più di altri ha saputo interpretare la realtà senza sacrificare l’uomo. Il suo interesse per l’uomo, così italiano e così lombardo, è straordinariamente bello.

Da dove partire?

Io di recente ho donato tutto il mio archivio su Mosè Bianchi all’archivio Bianchi, degli eredi di Pompeo Mariani. Stiamo pensando a come valorizzarlo. Ma vorremmo farlo a Monza.