“Afghanistan: un dramma che ci interpella”, è stato questo il filo conduttore dell’incontro con Farhad Bitani, fondatore del Gaf (Global Afghanistan forum), e vice presidente di “Hands for adoptions”, scrittore che in sala Gandini, venerdì 12 novembre, ha commentato il suo libro “L’ultimo lenzuolo bianco”, per i Tipi di Neri Pozza. L’evento è stato promosso dall’associazione culturale “L’Umana Avventura”, di cui è responsabile Carlo Camnasio che ha condotto il dialogo con Bitani, alla presenza di un folto pubblico.
Bitani, 35 anni, ex capitano dell’esercito afghano, è figlio di un generale dell’esercito afghano, ha vissuto la guerra prima sotto il regime dei mujaheddin e poi dei talebani. Ha compiuto i suoi studi in Italia, prima all’accademia militare di Modena e poi alla scuola di applicazione di Torino. Dopo essersi definitivamente trasferito in Italia come rifugiato politico, ha deciso di dedicare la sua vita al dialogo interculturale e alla pace.
Un libro che intreccia la vita di un ragazzo a quella del suo popolo. Un libro in cui l’Italia ha un ruolo significativo.
“L’Afghanistan è uno zoo con i leoni al potere – ha esordito – in mezzo ad una folla di uccellini. Non ci sono regole, vige solo la legge del più forte, in cui il 90 per cento dei giovani non conosce la propria data di nascita”.
Suo padre, generale dell’esercito di Mohammed Najbullah (quarto e ultimo Presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, sconfitto nel 1992, ucciso dai talebani nel 1996), sceglie di schierarsi con i mujaheddin, che all’epoca dell’invasione russa combattevano per l’indipendenza del paese. Sua madre è un’Antigone asiatica: non ha avuto la possibilità di istruirsi, ma insegna al piccolo Faharad che nel cuore di ogni uomo – o donna – c’è un punto bianco (l’umanità) che può estendersi fino a permeare tutta la persona. Grazie al ruolo del padre, il bambino è un privilegiato, a cui non manca nulla. Privilegiato, ma immerso nell’orrore, che per lui e i suoi amici era la normalità: durante la guerra civile, assiste alla lapidazione di una donna, ritenuta adultera, davanti alle sue bambine, vede bambini violentati e assassinati per una macabra e crudele “sfida” degli adulti.
“Durante l’infanzia e l’adolescenza- ha sottolineato Farhad- non ho mai potuto vedere il rispetto per le persone, né da parte dei mujaheddin né da parte dei loro acerrimi nemici, i talebani, che hanno fatto degli atti di brutalità, un perverso “spettacolo””. Eppure, qualcosa in lui fa resistenza, gli impedisce di cedere alla barbarie a cui vogliono costringerlo: è il “punto bianco” del suo cuore. “Mi sono accorto dopo anni di quanto veleno ho inghiottito. Ringrazio Dio di non essere diventato un fondamentalista”.
Nel 2009, a 23 anni, abbandona la divisa per sempre e torna in Italia, senza avvertire nessuno, senza salutare. Arriva a Torino, dove la Questura gli concede asilo politico. Comincia a lavorare come mediatore culturale, il lavoro che tuttora svolge e ama. Nel 2012 arriva la condanna alla “fatwa”, la condanna a morte per gli “infedeli”. I giudizi di Farhad sulle opposte fazioni che dilaniano il suo paese sono oggi molto netti. Rileva che gli ingenti fondi Nato destinati ai giovani non vanno ai figli dei bisognosi, bensì ai figli dei generali, che li dilapidano, facendo la “bella vita”. E se dei talebani scrive che, quando prevalgono, lo fanno grazie al controllo delle menti di una popolo senza istruzione, non risparmia parole dure ai mujaeddin. Il loro obiettivo, in origine, era l’Islam, la pace la libertà, il sostegno ai più deboli, mentre adesso è “rubare, ammazzare, fare la guerra. Il 90 % degli afghani vive in povertà, nonostante i miliardi di dollari della Nato”.