L’alpinismo patrimonio dell’Unesco, le grandi imprese di Monza in vetta con Bonatti, Aiazzi e Oggioni

L’alpinismo è patrimonio dell’Unesco, è stato votato all’unanimità a dicembre. Monza ha sempre avuto un legame speciale con la montagna. E allora il Cittadino ripropone un articolo sulle grandi imprese del decennio 1950-1959.
Monza Walter Bonatti
Monza Walter Bonatti Fabrizio Radaelli

L’alpinismo è patrimonio dell’Unesco. È stato votato all’unanimità a dicembre in occasione della XIV sessione del Comitato Intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, in Colombia.

Sono state Italia, Francia e Svizzera a presentare nel 2018 la candidatura per l’iscrizione nella lista dell’Intangible Cultural Heritage, evidenziando gli aspetti sociali e culturali della pratica alpinistica, nonché lo spirito internazionale che la contraddistingue da sempre. Un importante riconoscimento, dunque, per l’arte di scalare in maniera rispettosa dell’ambiente, ispirata da principi di solidarietà e libertà. Per l’Italia la candidatura è stata presentata dal Club alpino italiano del presidente giussanese Vincenzo Torti, dal Collegio nazionale guide alpine italiane e dal Comune di Courmayeur.

Monza ha sempre avuto un legame speciale con la montagna. E allora riproponiamo un articolo pubblicato sull’inserto di luglio dedicato ai 120 anni del Cittadino di Monza e Brianza, la cronaca riletta attraverso le pagine del giornale: le grandi imprese del decennio 1950-59.

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Una stagione di grandi imprese con la voglia di riconquistare le montagne dimenticandone il ruolo negli orrori della guerra. Questo furono gli anni ’50 e in questo scenario si inseriscono tre brianzoli, grandi alpinisti e soprattutto amici: Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Josve Aiazzi. Bonatti, operaio alla Falck che saprà imporsi come una delle figure miliari dell’alpinismo mondiale con una tecnica folgorante, modestia e morale, per poi andare alla scoperta del mondo (da metà anni ’60) come reporter, esploratore, fotografo, scrittore.

Il monzese Aiazzi, tra i fondatori a Monza della Pell e Oss, che doma la Grigna come le Ande. Oggioni, classe 1930 di Villasanta, un talento di cui Dino Buzzati scrive «non ho mai visto nessuno che, pur in così piccole dimensioni, esprimesse un così intenso concentramento di energia fisica». Morirà nel ’61 nella tragedia del Freney sul Bianco, ricordato da Bonatti nel libro “Le mie montagne” (’61), che servirà anche a mettere le cose in chiaro sul “caso K2”. Sono gli anni di grandi Imprese e sono gli anni della Pell e Oss che, scriveva il Cittadino nel ’53, ”dicono abbia raggiunto fama grande nelle località alpine e – forse – più all’estero (versante francese e svizzero) che da noi”. Sono gli anni di Walter Bonatti. “Il giovanissimo terzo uomo del K2” scrive l’altrettanto giovane giornalista Giovanni Fossati, da poco passato alla redazione dopo essere entrato a il Cittadino nel 1948 (ci rimarrà fino al 2001), nella “intervista particolare con Bonatti” del 1954. È la fine di settembre, un paio di mesi dopo il traguardo storico di una spedizione italiana sulla vetta del K2: il 31 luglio con Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e Bonatti, 24 anni compiuti durante la missione (il 22 giugno) e fresco di brevetto da guida alpina, guidati da Ardito Desio.

L’impresa che Monza aveva celebrato illuminando il municipio: “I colori di Monza e il vessillo della Pell e Oss sventolano sul K2 insieme al tricolore” (il Cittadino, giovedì 5 agosto). Non poteva ancora sapere Fossati che quella sarebbe stata al centro di un processo lungo più di cinquant’anni. E puntato proprio su Bonatti, bergamasco classe ’30, monzese fin da bambino. Solo a distanza di (molti) anni infatti verrà riconosciuto il suo ruolo fondamentale nella conquista del K2 a smentire la relazione ufficiale di Ardito Desio.

Perché il giorno prima dell’ultima salita di Compagnoni e Lacedelli fu lui a scendere dall’ottavo campo verso il settimo – da 7.600 a 7.300 metri – per prendere l’ossigeno necessario ai compagni e tornare poi fino al nono – oltre 8mila metri – allestito però in un posto diverso da quello concordato. Fu lui, dopo uno scambio di battute con i compagni accampati molti metri più in là sulla montagna, a passare una notte all’addiaccio (nel ghiaccio) per non lasciare solo l’accompagnatore pachistano Amir Mahdi, lasciando le bombole per i due che poi avrebbero piantato la bandiera tricolore a quota 8.611 metri. Nel luglio ’54 Bonatti aveva compiuto l’impresa, quella che sarebbe passata alla storia, senza godersela davvero. Tanto aveva già fatto e soprattutto tanto avrebbe dovuto ancora fare: cresciuto su Grigne e Resegone come tutti i Pell e Oss, aveva già conquistato la parete est del Grand Capucin (1951), le pareti nord delle Cime di Lavaredo d’inverno, il Cervino e il Pizzo Palù (1953).

Settembre 1954: “L’esito della spedizione fu sul punto di naufragare, riuniti gli scalatori a gran consiglio per un drammatico scambio di vedute”, scriveva il Cittadino che finalmente incontrava un Bonatti riposato. Perché “dall’arrivo a Genova e più ancora a partire dal trionfale ingresso in Monza, Walter fu sommerso dal caldo, prorompente e irrefrenabile entusiasmo dei suoi concittadini. Per lui, in questi giorni, non vi fu più requie”. Festeggiamenti ufficiali, inviti di autorità, personalità, parenti e amici. La presenza richiesta a una partita di hockey (altro vanto monzese) e alla celebrazione del 25esimo delle sezioni degli alpini di Monza e Sovico.

Quando è il momento, Bonatti si presenta al cronista mettendo subito le cose in chiaro: “Che vuole io possa dirle? Sa bene che per contratto non ci è dato modo di anticipare quelle notizie che saranno rese pubbliche solo dal libro in fase di redazione dal professor Desio. Comunque, mi formuli delle domande e vedrò se mi è lecito rispondere”. Qualcosa era sembrato voler dire anche a il Cittadino: “Se non andiamo errati gli italiani erano praticamente quattro: Compagnoni e Lacedelli (…), lei e Roj”, chiedeva il giornalista.

“Bonatti ha un moto impercettibile delle labbra – scrive Fossati – sta forse per aprire bocca, ma d’un subito l’ispirazione gli si spegne in gola per trasformarsi in uno schietto sorriso, mentre allarga le braccia. L’eloquenza della mimica ci convince a non ulteriormente insistere…”, continuando invece a raccontare dei pericoli corsi, “dell’abbattimento morale e deperimento fisico dopo 50 giorni bloccati a metà strada per l’imperversare del maltempo”. Fino alla svolta decisiva.

Bonatti non parlerà: racconterà la sua versione nel 1961nel suo libro E poi, dopo aver affrontato e vinto un processo per diffamazione nei confronti di un giornalista, nel 2004 accoglierà la verità del Club alpino italiano con la rettifica della relazione di Desio e i giusti meriti per il monzese. Intanto, da molti definito semplicemente come “il più forte”, va avanti da par suo, vendicandosi l’onore sul campo: con la scalata in solitaria del pilastro del Dru sul Monte Bianco, riuscendo con l’ingegno e un rete di corde a scalare l’ultima parete che pareva insuperabile, sulla parete nord del Grand Pilier d’Angle, col tentativo sul Cerro Torre in Patagonia con l’amico Carlo Mauri e poi, nel ’58, con la definitiva consacrazione nella spedizione diretta dal maestro lecchese Riccardo Cassin sul Karakorum.

Ancora con Mauri il 6 agosto raggiunge la vetta del Gasherbrum IV, la “montagna splendente” himalayana inviolata, senza l’ausilio di ossigeno. “Particolarmente Monza ha motivo di esultare – scrive il Cittadino – per il coronamento di un’audace impresa che ancora una volta onora il valore dell’alpinismo italiano (…) col concittadino Bonatti e perché è stata teatro dei prodromi della vittoriosa spedizione. Lo scorso aprile, grazie alla magnanimità del dr G.V. Fossati Belleni, tutto il materiale occorrente alla spedizione, venne raccolto (…) presso un magazzeno del Cotonificio di via Cavallotti. Tutti i componenti della spedizione furono poi ospiti della nostra città quasi l’intero mese, alloggiando presso la Trattoria Rosa di via Volturno il cui proprietario, il signor Volpi, li attende al ritorno per un pranzo d’onore”. Chiara Pederzoli