A Monza e Brianza il gioco d’azzardo non è una piaga: è un vizio di famiglia. Una specie di eredità culturale. Come la cassapanca della nonna o la foto di Teodolinda.
Cambiano le mode, cambiano gli arredi urbani, ma l’irresistibile fascino della puntatina rimane. Il territorio è passato dalle reliquie ai gratta e vinci senza nemmeno prendersi una pausa caffè. Un tempo neanche troppo lontano, qui non si giocava: si pellegrinava. Altro che Santiago. Le strade brianzole si popolavano di fedeli diretti al santuario laico di Campione d’Italia per far “girar la baleta”.
Lì la roulette roteava più della testa dei pendolari di oggi. Una processione silenziosa, composta da impiegati con la speranza nel portafoglio e industrialotti col nodo della cravatta già allentato e il”nero” in tasca.
Gioco d’azzardo, il colore dei soldi a Monza: la città segreta e i luoghi delle scommesse
E poi c’era la Monza segreta, quella che oggi farebbe impallidire le serie Netflix. Altro che “Nightlife”. La sera il centro era deserto (più o meno come oggi). Un deserto. Ma attorno alla colonna votiva di piazza Duomo comparivano, come apparizioni, micro-bische improvvisate. Qui si giocava “forte” con i dadi. In via Mentana, dalle parti della stazione, un bar avesse visto più puntate che confessioni. A biliardo. E chi non conosceva il bar in fondo a via Buonarroti. Quello oggi chiuso, col silenzio che sembra dire “qui ne sono successe troppe” sa che lì non si prendeva il caffè: si faceva girare una vera roulette. Nascosta al piano di sopra, certo, ma neanche troppo. Il rumore della pallina lo sentivi fino alla fermata dell’autobus. Quello era il regno di Romano Villa, consigliere comunale, detto “Rommy” o anche semplicemente “il partigiano”.
Spettacolari i suoi racconti il mezzogiorno nella base operativa della “galera” che poi era una trattoria dietro le carceri vecchie ormai rase al suolo. L’imitazione della fiche caduta dal tavolo era da Zelig.
Gioco d’azzardo, il colore dei soldi a Monza: le partite dei “big” e la leggenda de 200 milioni
E non parliamo delle partite a poker dei “big”, politici e no. Quelle che oggi chiameremmo eventi esclusivi, ma che allora erano semplicemente: “Affitta un albergo e vediamo chi ha davvero il fegato”. Politici, imprenditori, qualcuno che “passava di lì”, tutti attorno a tavoli di poker dove giravano più soldi che in un bilancio comunale.
Nella leggenda monzese è entrata la partita da 200 milioni di lire. Duecento milioni veri, messi in una buca come fosse un’urna rituale. Con un arbitro federale in giacca e cravatta a certificare lo spettacolo. Gli astanti pagavano per assistere. Lo show iniziava alle due del mattino. L’ora in cui la città dorme e i Barabba veri si svegliano.
Oggi tutto questo è più silenzioso, più regolamentato, più digitale. Le bische sono scomparse, la roulette si è trasferita negli smartphone, e il pellegrinaggio si fa online con un click. Ma la sostanza non è cambiata. Monza continua a giocare, e a volte a perdere, come se avesse un conto aperto con la fortuna.
Forse è il caso di ricordare una piccola, grande verità brianzola: alla lunga, l’unico che vince davvero è sempre il banco. E il banco, qui da noi, ha più sedi della Provincia.