Susanna Pozzoli, le regole dell’assenza

Susanna Pozzoli, le regole dell’assenza

Monza – Come dar loro un senso o una lingua: perché parlino di quello che sono, o meglio, di quello che siamo. Le cose comuni, diceva Georges Perec: l’infraordinario – «non più l’esotico, ma l’endotico». E si chiedeva «come braccarlo, come stanarlo, come liberarlo dalle scorie nelle quali resta invischiato». Raccontandolo e facendolo parlare, di nuovo: i fatti di ogni giorno, il banale e il rumore di fondo, l’abituale. Anche per immagini, quelle di Susanna Pozzoli, fotografa chiavennasca trasferita a Monza e Milano, che dopo Barcellona, Goteborg, New York e tanti altrove vive ora a Seoul, invitata dal Mongin art center in un programma di residenza. L’ultimo di una carriera internazionale – e cosmopolita, aggiunge lei – che nell’arco di pochi giorni la troverà protagonista di mostre alla galleria milanese San Fedele e all’Institut culturel italien di Parigi.

Ha fatto parlare le architetture naturali del parco di Monza (Park boundaries, 2007), poi gli interni familiari rassegnati al lutto (After the funeral, 2008-2010), fino alle stanze private di un quartiere di Harlem (On the block 2007-2009): né volti né corpi ma oggetti, pareti, soprammobili e arredi. Il contesto, in altre parole, che descrive e racconta il soggetto senza mostrarlo. Perché le cose, appunto, lo compilano. Anche e soprattutto nelle dinamiche urbane e sociali, quelle che sta inseguendo in Corea. «A Seoul sto lavorando su identità in disparizione. Artigianato di valore e botteghe di fabbri, cartai e gioiellieri che sono sotto sfratto perché non coincidono con l’immagine tecnologica della Nuova Seoul. Saranno abbattute presto per lasciare spazio a grandi centri commerciali, uffici».

Scompaiono i luoghi e con loro le persone: nel frattempo è il luogo – lo spazio – a rivelarle: «Senza il ritratto. Se è un artigiano, ci sarà il luogo che racconta attività, lavoro, azioni, concentrazione e fatica. Voglio dare un senso di presenza, di umanità, di passaggio e cerco di pensare a chi li abita». Una prospettiva rispettata anche nei “Non luoghi”, il progetto vincitore del Premio San Fedele che sarà inaugurato il 25 novembre a Milano. Con un comune denominatore rispetto al passato– l’assenza, quella di Attilio Bertolucci, che è “più acuta presenza” – ma un interlocutore differente rispetto ai lavori immediatamente precedenti: non più l’individuo ma il suo multiplo indeterminato, la folla. Sono ospedali, biblioteche e aeroporti, il fondale estemporaneo di migliaia di persone in transito e come tale al di là del tempo: architetture funzionali fatte – dice la fotografa – per essere prima e dopo l’esserci. Ma l’assenza ha delle regole, quelle che sorpassano il dato narrativo e diventano algoritmo estetico, costante in Susanna Pozzoli: ambienti non modificati e luce intatta – naturale o spuria – inquadrati in una costruzione formale, che sottolineano l’eredità della ricerca pittorica d’avanguardia del Novecento, da Mondrian a Rothko, dall’espressionismo astratto alle rarefatta potenza informale.

«Per me la fotografia idealmente è un mezzo per scrivere e disegnare. Cerco di staccarmi da quello che vedo e di comporre dei tableux con quello che ho davanti agli occhi. Trovo ci sia una grande poesia nei giochi di linee e nei colori. I luoghi più banali acquistano grande impatto se si riesce ad astrarsi e a scomporne gli elementi usandoli per creare strutture». Quelle che raccontano – diceva Perec – l’infraordinario che ha smesso di stupire.
Massimiliano Rossin