Ero stata in Tunisia ad aprile per pochi giorni e non avevo potuto mancare Cartagine, benché per poche ore. Sarebbe stato grave come per uno straniero trovarsi in nord Italia e non fare una puntata a Venezia. A Cartagine avevo cercato di ricordare la storia di Didone ed Enea, ma anche di Annibale e delle guerre puniche, e avevo deciso che avrei dovuto rinfrescare i ricordi scolastici ormai del tutto sbiaditi.
Che peso possono avere mai nella vita complicata di una persona normale brandelli di storia così lontani e così sconnessi con la nostra attualità? Sbagliavo, e la coscienza dell’errore mi ha riportata in Tunisia dopo nemmeno due mesi, a riprendermi le tessere del mosaico della memoria ridotta a brandelli, che volevo ricostruire. Questa volta l’idea era di dedicare esclusivamente alla storia romana un’intera settimana e ci sarei pure riuscita, per scoprire tuttavia che dal piano delle tappe per siti archeologici romani programmate a due per giorno, ne erano rimaste fuori più di quante ne erano state incluse.
Questa specie di “pellegrinaggio in calzari romani” ha toccato Chemtou, Bulla Regia, Makthar, Oudna, Zagouhan, di nuovo Cartagine, il Museo Bardo di Tunisi, Sbeitla, El Jem, Dougga, Sousse, Nabeul. A onor del vero storico dovremmo chiamare queste località coi loro nomi latini, ossia Simitthus, Bulla Regia, Mactaris, Uthina, Ziqua, Carthago, Sufetula, Thysdrus, Thugga, Hadrumetum, Thuburbo Majus, Neapolis. Sì quest’ultima suona familiare, anzi è omonima della nostra Napoli che evoca ultimamente ricordi non propriamente di limpiezza. Ma le repliche dei toponimi sono frequenti in tutto il pianeta e sottendono storie interessanti, avendo voglia di scoprirle.
Torniamo alla Tunisia imperiale, granaio dell’impero romano e non solo. Gran mercato di fiere feroci per il Colosseo e altri anfiteatri nostrani, ma anche per quelli costruiti nella colonia stessa tunisina, chiamata – per distinguerla da altri territori di conquista africani – Africa proconsolare, e dove gli insediamenti di militari, civili e uomini di religione non potevano fare a meno di quegli schemi urbanistici e abitativi e di quelle delizie della vita che allora i romani godevano in patria, nella capitale soprattutto.
Dunque ville riccamente decorate, sia quelle entro le mura che quelle di campagna, e fòri dove vendere la mercanzia, e templi dove pregare dèi antichi e nuovi, e poi ancora teatri dove godere recite e forse esibirsi in pubblico coi pepli più eleganti, e anfiteatri dove scaricare l’adrenalina e gli istinti più sanguinari negli spettacoli cruentissimi di lotte tra uomini e animali ( e dove gli uomini avevano di regola la peggio) e terme grandiose da far invidia alle nostre spa, addirittura stabilimenti invernali ed estivi, con mosaici che non lasciavano un centimetro libero né sui pavimenti delle palestre, nè sui rivestimenti delle piscine.
Un vivere “alla romana” insomma in terra di Tunisia che era allora- e lo è ancora- una specie di Eden, soprattutto nella sua parte nord, verde e rigogliosa di ulivi, di grano, di mandorli e, incredibile ma vero, ricca di acqua. Tanta acqua da riempire tutte le piscine delle numerose terme pubbliche e di quelle private e da poter essere incanalata in acquedotti di oltre cento chilometri, come quello di Zagouhan, forse il più spettacolare del mondo, che per 132 km portava trenta milioni di litri d’acqua dalle montagne dell’interno fino a Cartagine. La quale, essendo la regina delle città romane rifondate dai romani dopo aver naturalmente cambiato i connotati alla morfologia del luogo (come si conviene ai conquistatori) aveva esigenze “ da capitale”, dunque ville più grandi, terme più eleganti, cisterne più capienti. Ma i primati, che oggi diremmo archeologici, non sono solo di Cartagine. Bulla Regia ha un numero di ville ipogee( ossia costruite sottoterra) come nessuna altra città al mondo, né romano né di altra civiltà, El Jem ha un anfiteatro secondo solo al Colosseo di Roma e comunque il meglio conservato di tutta l’Africa, Dougga ha un teatro in posizione talmente spettacolare da far invidia ad Atene o Agrigento, giusto per citare due luoghi piuttosto noti.
Non per nulla tutti e tre questi siti sono, a buona ragione, nella lista del patrimonio dell’Umanità. E che dire di Chemtou, che ha rifornito Roma per secoli di marmo pregiatissimo dalle delicate venature giallo rosa? E di Sufetula con i suoi tre templi uno accanto all’altro come se uno non dovesse bastare? E soprattutto che dire dei mosaici del Museo Bardo di Tunisi, che riaprirà a fine anno dopo lavori sostanziosi e dove hanno trovato un tetto ( e adeguati restauri) i più bei mosaici di tutti i siti romani della Tunisia imperiale. Altri sono rimasti laddove erano stati montati tesserina dietro tesserina e sono ancora calpestabili.
Un’emozione autentica, benché associata all’amarezza di constatare come i vandali di oggi( quelli veri colpirono senza pietà tra il V e il VI secolo d.C. ma non distrussero tutto) abbiano sfrangiato i bordi togliendo tasselli uso souvenir e lasciando comunque alle intemperie e al solleone il compito di finire l’opera di distruzione. Che fare di tutto questo bendiddio archeologico? Leggerne non basta e non rende abbastanza l’idea. Andare sui siti e vedere coi propri occhi è molto più efficace e ben possibile – e facile ed economico ora che i prezzi sono andati giù per crisi economica seguita alla rivoluzione politica di gennaio – possibilmente documentandosi prima con due belle mostre fotografiche, a Roma e a Milano, del fotografo romano Francesco Cabras che ha condiviso con me e con il regista Enzo Aronica la “scammellata” tunisina per 12 siti in 6 giorni. Il resto al prossimo giro. A breve, inshallah.
Testi e foto di Ada Grilli