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Monza: il pronipote Matteo Perego ridà vita ai cappelli Cambiaghi

Il pronipote Matteo Perego ha ridato vita al marchio storico dei cappellifici di Monza: i Cambiaghi. Chi è e perché lo ha fatto: così si è raccontato la Cittadino.
Oggetti storici del cappellificio Cambiaghi di Monza
Oggetti storici del cappellificio Cambiaghi di Monza

Non porta più il nome della famiglia che ha fatto la storia dell’industria di Monza, eppure ci ha creduto, ha insistito, lo ha fatto: ha ridato un corpo al marchio Cambiaghi, il cognome che più di ogni altro ha fatto la storia dei cappellifici di Monza.

È milanese, ha 36 anni e si chiama Matteo Perego di Cremnago, nipote di quarta generazione di Giuseppe Cambiaghi, fondatore, nel 1880, di una delle industrie più floride e all’avanguardia dell’epoca. «La storia della mia famiglia – ha raccontato – mi ha sempre affascinato così tanto che, una volta acquisite le competenze necessarie, ho pensato di far rinascere il marchio fondato dal mio trisavolo: lo meritava, custode com’era di così tanta storia, qualità ed eccellenza».

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Quattro anni fa la svolta: dopo una laurea in filosofia e sei anni di esperienza nel settore della moda presso la Giorgio Armani, per cui Matteo Perego ha ricoperto diversi ruoli in Italia, in India e in Brasile, i tempi erano maturi: «C’erano tutte le condizioni per poterlo fare – ha spiegato – e l’ho fatto, scegliendo di affiancare, alla produzione di cappelli, quella di borse. Unendo la tradizione all’innovazione, sotto il segno del “made in Italy”». Un tempo quasi non si incontrava uomo che non portasse un cappello: «Adesso – ha proseguito – è considerato un accessorio quasi eccentrico. Noi lo abbiamo voluto attualizzare, arricchendolo di accessori: spille in bronzo, fasce, altri dettagli. Penso a un modello in particolare, quello che abbiamo chiamato “Vanity Mirror”: al suo interno abbiamo inserito uno specchietto. Ricorda quello che Cambiaghi aveva realizzato appositamente per l’allora re del Congo, nel 1926».

I procedimenti produttivi sono gli stessi del passato: «Viene tutto realizzato a mano, utilizzando macchinari d’epoca. I cappelli, portatori del nostro marchio e dei nostri valori, sono prodotti a Monza, presso lo stabilimento dei fratelli Vimercati, gli unici custodi in città di questa antica tradizione».

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Dall’atelier di via Borgonuovo 14, nel cuore di Milano, fino al Giappone e agli Stati Uniti: la volontà è quella di (ri)portare i cappelli Cambiaghi in tutto il mondo: «Ci stiamo espandendo negli States, in particolare all’interno della comunità ebraica», ha precisato. Uno sguardo all’estero ha sempre caratterizzato anche le strategie di marketing di Giuseppe Cambiaghi, imprenditore illuminato e all’avanguardia: acquistava pubblicità sui quotidiani stranieri, esportava i suoi cappelli anche in America latina e in Australia. Senza mai dimenticare, però, le sue origini: nato nel 1851, inizia a lavorare a quattordici anni come garzone presso il cappellificio Valera. Nel 1879 si mette in proprio e, pian piano, riesce a diventare proprietario di una delle industrie più floride dell’epoca, in grado di produrre milioni di cappelli all’anno e di dare lavoro a 1.500 persone, preoccupandosi delle condizioni e delle necessità di tutti i suoi dipendenti, offrendo addirittura anche incentivi alle donne incinta. Lo stabilimento aveva sede nei pressi di porta Lodi: a pochi passi da quella che è diventata piazza Cambiaghi. Una frenata, brusca, per l’impresa arriva negli anni della seconda guerra mondiale, quando il cappello inizia a essere considerato un oggetto superfluo. Sempre negli anni Quaranta, quella che dal 1904 era stata la residenza di famiglia, l’attuale istituto Leone Dehon di via Appiani, viene occupata da truppe e soldati: la famiglia Cambiaghi si trasferisce altrove, allora, e alla fine della guerra vende l’immobile ai sacerdoti del Sacro Cuore, che la ritrasformano (l’edificio nasce nel Duecento come convento) in dimora religiosa: «Ho in programma di visitare l’ex residenza di famiglia proprio nei prossimi giorni – ha precisato Matteo Perego – fino ad ora l’ho vista solo nelle vecchie fotografie in bianco e nero».