Domanda e risposta con Amedeo Spinelli, presidente della K-Flex di Roncello. La multinazionale dei materiali isolanti (13 stabilimenti nel mondo) al centro delle cronache per la decisione di chiudere il sito brianzolo licenziando 187 lavoratori che dal 24 gennaio sono protagonisti di un presidio permanente. La K-Flex mercoledì non si è presentata al tavolo al Ministero dello sviluppo economico, “non avendo novità da comunicare”.
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I lavoratori si sono detti disponibili ad alcune mediazioni: che non vengano ritirati tutti i 187 licenziamenti, trovando anche soluzioni come l’anticipazione delle pensioni o le buone uscite. L’azienda è disposta a trovare delle mediazioni su questi temi?
La sede deputata alla formulazione e valutazione di questo tipo di proposte è il tavolo delle relazioni sindacali. K-Flex ha già confermato in tutte le occasioni la propria disponibilità al dialogo e sollecitato la prosecuzione del confronto in quella sede.
Quali sono, concretamente, le decisioni che ipotizzate di prendere per alleviare l’impatto sociale derivante dalla chiusura della produzione in Italia?
L’intenzione di K-Flex è di giungere quanto prima ad un accordo con le parti sociali. Abbiamo già più volte confermato la disponibilità ad un piano di incentivazione e alla adozione di strumenti di politiche attive aggiuntivi a quanto messo a disposizione dalla Regione Lombardia.
In un vostro comunicato del 15 febbraio si legge che “l’attuale forzato fermo produttivo e distributivo dello stabilimento italiano sta creando addirittura disservizi e rallentamenti agli altri impianti del Gruppo ad oggi esistenti”. Dunque l’impianto produttivo italiano non è così anti-economico? Lo spostamento della produzione fuori dall’Italia non è dettata dalla sola volontà di aumentare il margine di guadagno?
K-Flex non sposta la produzione. Nel mondo sono già attivi, da anni, altri 10 impianti di produzione. In Italia cessa la produzione e le motivazioni sono note e le abbiamo dichiarate in tutti gli incontri con parti sociali e Istituzioni. K-Flex non scappa e rimane in Italia con altre attività strategiche e che in questo momento, a causa dello sciopero, sono solo parzialmente operative con conseguente creazione di disservizio al Gruppo.
A fine 2016 avete firmato un documento in cui si dichiarava che non si sarebbero aperte procedure di riduzione del personale per il 2017: come mai le cose sono cambiate, e così velocemente?
Quel documento fotografava una situazione che non è più quella attuale e che risulta ulteriormente complicata rispetto alla fine dello scorso anno.
Sono numerose le pressioni degli attori territoriali (e non) sulla scelta aziendale da voi annunciata: arrivano dalla politica come dalla chiesa e dalla società civile. Questo non vi persuade a ripensare il percorso che avete immaginato, in forza dell’importante ruolo che tutti hanno riconosciuto al mantenimento della produzione in Italia? Prendiamo in seria considerazione tutti i contributi costruttivi, da qualunque parte provengano, e ringraziamo le Istituzioni per il loro interessamento. Al momento non vediamo alternative concrete, realistiche e praticabili differenti da quel percorso che vorremmo fare insieme alle parti sociali.