Arte: l’antologica del pittore Agostino Bonalumi a Milano dedicata all’assistente scomparso

L’antologica sul pittore Agostino Bonalumi, nato a Vimercate e scomparso nel 2013, è aperta a Palazzo reale a Milano fino al 30 settembre: è dedicata a Luca Lovati, restauratore e assistente storico dell’artista morto cadendo da una scala durante l’allestimento.
mostra agostino bonalumi palazzo reale milano: un particolare di Blu abitabile
mostra agostino bonalumi palazzo reale milano: un particolare di Blu abitabile

Inaugurata e dedicata a Luca Lovati, morto cadendo da una scala durante l’allestimento. L’antologica del pittore Agostino Bonalumi, nato a Vimercate e scomparso nel 2013, è aperta a Palazzo reale a Milano fino al 30 settembre: all’ingresso il ricordo del restauratore e assistente storico dell’artista, vittima di un incidente la settimana precedente l’apertura. Un omaggio voluto dal Comune e dall’Archivio Bonalumi.

“Non solo un freddo riconoscimento ma un omaggio alla sua memoria” ha sottolineato l’assessore alla Cultura milanese Filippo Del Corno.

L’antologica include 120 opere, custodite in 11 sale, illuminate dalla luce naturale che filtra dalle finestre di Palazzo Reale in un percorso espositivo che va in ordine cronologico, ma che si apre con uno colpo d’occhio sull’attività dell’artista con l’opera di pittura-ambiente “Blu abitabile” del 1967, una delle tre grandi installazioni presentate.

Agostino Bonalumi, nato a Vimercate, era cresciuto a Sulbiate prima di trasferirsi a Desio. È stato uno dei protagonisti di una stagione dell’arte italiana e in particolare dei movimenti artistici milanesi a fianco di Enrico Castellani e di Piero Manzoni.

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La presentazione della mostra pubblicata sul Cittadino
a firma Massimiliano Rossin

«Io no, io volevo fare il pittore» ripeteva Agostino Bonalumi nell’estate del 2013, nella sua casa di Desio. Era stato un suo punto fermo già negli anni Sessanta, quando a fianco di Enrico Castellani e Pier Manzoni spezzava i cardini della pittura com’era stata intesa fino ad allora: gli altri due protagonisti dell’arte oggettuale non avrebbero più ritenuto necessaria la prospettiva della pittura – uno, Manzoni, nemmeno quella della tela – ma lui sì. Uscire dal rettangolo della cornice d’accordo, invadere lo spazio, trovare un’altra dimensione (la terza) al dipingere era un conto, dimenticare la grammatica che l’aveva portato all’arte un altro. E lui, Agostino Bonalumi, non era disposto a rinunciare.

L’artista nato a Vimercate nel 1935 sarebbe morto nel mese di settembre di quello stesso anno: al Cittadino ha quasi certamente affidato la sua ultima intervista a un giornale. Per tutta la sua carriera ha inseguito una traiettoria orgogliosamente autonoma, senza farne mistero.A raccontare la sua indipendenza sono anche le raccolte di poesie, che dicono altrettanto della sua arte e sono tra i migliori versi del secondo Novecento italiano. Una mostra a Palazzo reale di Milano racconterà finalmente chi sia stato Bonalumi e la centralità della sua traiettoria artistica nell’Italia che scodava, con un po’ di ritardo, dai vincoli della tradizione prima classica e poi comunque figurativa. C’era stato Fontana ad aprire un varco tra un prima e un dopo e Bonalumi diceva: «Noi dentro quel taglio abbiamo visto il futuro».

Dal 13 luglio al 30 settembre: l’antologica curata da Marco Meneguzzo sarà completata anche da un focus dedicato a “Spazio, ambiente, progetto” allestito al Museo del Novecento e porterà a palazzo reale 120 opere dell’artista. “La mostra, la più completa rassegna dedicata a Bonalumi, illustrerà l’attività poliedrica e al contempo rigorosa di uno dei maggiori astrattisti a livello mondiale, mediante una serie di importanti lavori, molti dei quali di grandi dimensioni” incluso il riallestimento del celebre “Blu abitabile” realizzato nel 1967 a Foligno per la mostra “Lo Spazio dell’immagine”.

Non è la sola grande installazione: a Palazzo reale anche la struttura modulare bianca presentata per la prima volta nella sala personale alla XXXV Biennale d’arte di Venezia del 1970, “un’installazione composta da una serie di moduli che si innalzano verso l’alto”, e una parete esposta nel 2003 all’Institut Mathildenhöhe, Darmstadt in Germania.

«Agostino Bonalumi appartiene a quella generazione che ha preso molto da Lucio Fontana, ma che è riuscita a dare il senso dello spazio in una maniera assolutamente moderna, così come avevano fatto i due suoi amici e sodali, Piero Manzoni ed Enrico Castellani, pur mantenendo ciascuno una propria e ben riconoscibile cifra espressiva» raccontava Marco Meneguzzo a un mese dell’inaugurazione milanese. «Bonalumi ha trovato la chiave per dare un’immagine dell’arte strettamente aderente alla società che stava formandosi, aprendosi finalmente alla vera modernità, continuando a sperimentare fino alla fine dei suoi giorni» ma rimanendo sempre fedele all’alfabeto pittorico che aveva individuato al suo esordio nel mondo dell’arte.

«Il titolo è il progetto di un’opera d’arte, nel titolo c’è l’intenzione. “Lo sposalizio della vergine”. “Il ritratto di papa Giulio II”. È sempre stato così, dalle caverne, dove si tracciavano figure di animali per propiziarsi la caccia. C’era un progetto. Nell’informale il titolo viene dopo. Anzi, c’è chi si diverte a usare le mani, chi butta le cose» aveva raccontato al Cittadino nel 2013 descrivendo come la prospettiva dell’arte milanese, almeno quella dell’ambito di cui faceva parte, aveva dirottato rispetto alle altre latitudini dell’arte: quelle che dopo il Dada e il Surrealismo traslocato in tempo di guerra al di là dell’oceano, negli Stati uniti, avrebbero lasciato come eredi le fondazioni dell’informale astratta.

Non era lì che Bonalumi, Castellani e Manzoni dopo la lezione di Fontana intendevano andare: era altrove, in una idea di pittura (prima dello scarto definitivo arrivato in realtà presto, quello immediatamente successivo alla fondazione di Azimut e Azimuth – spazio e rivista – con la presentazione delle uova sode come arte da consumare da parte di Manzoni), un’idea di pittura che rimaneva ancorata alla tela, pur sorpassandola. Il resto era altro.

«Ricordo spesso un amico carissimo, che poi è morto giovane, ed era su questa strada – aveva detto ancora Bonalumi nel 2013 – È Paolo Scheggi. Lui veniva da Firenze a Milano. Era informale. Un giorno ho visto dei quadri suoi, ce n’era uno intitolato “Il letto della donna amata”. E io gli dissi: ma prima o dopo? Quando l’ha finito l’ha guardato, forse era anche nell’innamoramento, e gli è venuto il titolo. Bello, poetico anche, però il quadro non c’entra nulla».

La strada percorsa da Bonalumi, che pure ha messo alla prova le scelte dell’informale per abbandonarle in fretta, è stata diversa: l’arte non doveva necessariamente raccontare qualcosa. O meglio, lo faceva nei termini più astratti, restando costantemente legata allo spazio della sua rappresentazione. Ecco: lo spazio. Lì si è concentrata l’indagine di Bonalumi, che ha consapevolmente scelto di raccontare la terza dimensione a partire dalla tela. E allora i monocromi, che sono rappresentazione prima di tutto di un sentimento – quel sentire latino che significa direttamente “percepire con i sensi”.

L’artista vimercatese è andato oltre quel rettangolo scegliendo i colori per identificare il sentimento e ha invaso lo spazio: così vanno lette le opere che per settant’anni hanno raccontato la scelta di invadere lo spazio allo stesso tempo per andare fuori dal quadro e per riportare lo spazio al suo interno. Perché per leggere un’opera di Bonalumi serve tutto quello che lo spazio descrive: l’opera in sé, con le sue estroflessioni verso l’esterno; lo spazio occupato dalle estroflessioni, piccole, grande ed enormi che siano nello spazio che lo circondano; e la luce che insiste sull’opera, che descrive a sua volta altri spazi, altre dimensioni, altre strutture dello spazio e per questa stessa ragione nel tempo, se la luce è naturale, che occupano la terza dimensione della sua arte.

«A volte mi arrivano delle lettere in cui dicono “non so come dire, ho visto le sue opere, mi hanno dato un’emozione che non so descrivere” – ha detto al Cittadino sempre nel 2013 -: e io rispondo che non è possibile, non si può dirla l’emozione, si può solo evocarla. E il significato dell’arte sta proprio nell’indicibile, perché altrimenti, se io posso trasmettere a parole quello che voglio trasmettere nell’arte, faccio più in fretta a dirlo. Vale in poesia, in musica, in teatro. Nella pittura la cosa è un po’ più complicata, perché la musica è già astratta. Comunicare l’indicibile è difficile, così come spiegarlo. D’altra parte, se non si conosce l’italiano, Dante non è un buon poeta».

E l’informale? «Non mi appagava, mi sembrava ginnastica pittorica» aveva raccontato Bonalumi cinque anni fa: «Cercavamo cosa c’era oltre il confine, l’informale o l’astrattismo classico, e oltre la nuova figurazione che tanto nuova non era. Noi non ci sentivamo appartenere a questo clima. Cercavamo altro. Subito dopo di noi, ma a distanza di un anno o due, si sono manifestati i giovani che hanno fatto l’arte cinetica, e si parlava molto anche di un’arte razionale, si usavano termini come spazio-tempo, quasi invidian do la scienza, come se l’arte non fosse già lei, di suo, un pensiero scientifico».