Quel 26 aprile di 35 anni fa: Chernobyl, la nube, l’insalata vietata e la Brianza solidale che non ha mai dimenticato

Sono passati 35 anni dal disastro nucleare e almeno 30 di questi sono trascorsi con associazioni e volontari brianzoli impegnati per aiutare le popolazioni di Ucraina e Bielorussia, le più colpite, con i soggiorni terapeutici dei bambini ma anche con aiuti sul posto. Il cesio 137, in quelle terre, è rimasto ovunque, con malattie e malformazioni. La povertà fa il resto. E ora, con il Covid, tutto è ancora più difficile.
La centrale nucleare di Chernobyl ricoperta
La centrale nucleare di Chernobyl ricoperta

Ha ancora senso oggi, in questa seconda primavera di lotta alla pandemia da Covid-19, parlare di quel 26 aprile 1986 e dei giorni a seguire segnati anche in Brianza dal terrore di un nemico sconosciuto, in arrivo da lontano e ancora tutto da capire? La paura e l’incertezza assalì tutti, con le finestre da tenere ben sigillate, l’insalata appena cresciuta nell’orto assolutamente vietata, le vendite del latte crollate a picco. Con il ricordo di Seveso così vicino, con l’Icmesa capace di generare l’impensabile appena 10 anni prima. Ne sono passati 35 di anni dal disastro nucleare di Chernobyl e almeno 30 di questi sono trascorsi con associazioni e volontari brianzoli (da Arcore a Desio, Verano, Vimercate, Carate e tanti altri) impegnati per non dimenticare e per aiutare le popolazioni di Ucraina e Bielorussia, le più colpite dal disastro. Anche per questo ha ancora senso parlare di Chernobyl. Ma è un senso che trova il suo maggior fondamento nelle condizioni odierne di quei territori e in quella radioattività più che mai diffusa.

Il cesio 137 è rimasto ovunque con la devastazione nucleare, le malattie, e le conseguenti malformazioni. L’arretratezza delle zone rurali ha poi avuto nel disastro ambientale la sua massima amplificazione, generando situazioni di povertà oltre ogni limite. Senza considerare l’aggravante dei venti di guerra che soffiano nella parte orientale dell’Ucraina. È guardando a questa situazione complessiva che nel tempo gli aiuti di diverse associazioni della Brianza si sono diversificati: dall’ospitalità in famiglia di bambini e ragazzi per i soggiorni terapeutici si è arrivati così alle adozioni a distanza, alle borse di studio e all’invio continuo di generi alimentari e sanitari. Come ha fatto Ti do una mano Onlus di Monza, realtà guidata da Lele Duse e da altri monzesi sin dal 2004. Il loro ultimo viaggio a Chernigov, territorio di riferimento per l’associazione, è stato nel 2017. L’ultimo soggiorno qui dei bambini è di due anni fa. Già allora era evidente la difficoltà di trovare ancora famiglie disposte ad accogliere i ragazzi ucraini due volte all’anno. Il disastro nucleare, pur epocale, appariva ormai troppo lontano, temporalmente e geograficamente, con le conseguenti difficoltà di riuscire ancora a coinvolgere le persone nel progetto. In questo anno il Covid ha fatto il resto, allontanando ancora di più quei volti, quelle storie e quei territori devastati. Ma l’effetto Chernobyl è un’onda lunghissima, destinata anzi ad essere interminabile per le conseguenze sanitarie ed economiche, nonostante l’oblio dettato dalla memoria e dalle altre tragedie contingenti e assai più devastanti. Sasha, l’accompagnatore di tanti gruppi di bambini a Monza e oggi amico dei volontari della Onlus racconta di malattie riconducibili alla radioattività anche nei nati degli anni Duemila. I paesi rurali sono in uno stato simile a quello dell’Italia negli anni ’50. Molti sono rientrati senza permesso nei territori più contaminati, ci coltivano per sopravvivere; ci sono i cacciatori di frodo che estendono il livello di radioattività, con animali contaminati portati altrove, vengono accesi fuochi che divampano e liberano altre sostante nocive e che solo la scorsa primavera hanno causato un incendio di portata devastante.

Quel 26 aprile di 35 anni fa: Chernobyl, la nube, l’insalata vietata e la Brianza solidale che non ha mai dimenticato
Bambini ucraini ospiti a Monza con l’associazione “Ti do una mano”

Chi oggi lavora nella centrale lo fa per poche settimane poi è costretto a fermarsi: troppo pericoloso per la salute farlo di seguito. Si vive anche di turismo sul reattore esploso, accompagnandovi chi non resiste alla tentazione di trasformare una catastrofe in uno scatto fotografico. Sono i cernobilliani di oggi, come li definiva Massimo Bonfatti, amico di “Ti do una mano” e presidente di Mondo in Cammino, tra i primi a correre in aiuto a quei territori, purtroppo scomparso pochi mesi fa. «Quanto accadde a Prypiat fu qualcosa di epocale – rimarca Duse -. Certo, oggi se guardiamo a com’è la nostra vita da oltre un anno quanto avvenne al reattore ci sembra ancora più lontano. L’arrivo dei bambini qui da noi al momento è impossibile per ovvie ragioni ma anche se guardo a un futuro migliore non vedo comunque grandi prospettive perché le persone non hanno la percezione di quanto accaduto e delle sue conseguenze». Tanto che l’associazione è da tempo impegnata in progetti di solidarietà a Monza, a sostegno di altre realtà. Senza però mai dimenticare i suoi bambini, con aiuti all’ospedale di Novgorod, all’asilo di Vertyijievka, alla scuola professionale di Chernigov, al centro per sordi di Sosnytsya e con la spesa a distanza per aiutare le famiglie. «Una cosa è comunque certa- conclude Duse -: sino a quando ci sarà anche solo una minima possibilità di organizzare di nuovo l’ospitalità dei bambini, noi ci saremo. Sempre».

Lo stesso impegno che muove l’Unitalsi sottosezione di Monza. La lettera arrivata il 22 febbraio 2020 dall’ambasciata bielorussa per bloccare tutti i soggiorni terapeutici Rosella Panzeri la ricorda ancora oggi come un pugno allo stomaco. Ogni forma di ospitalità è stata spazzata via dell’emergenza Covid e il divieto è stato messo nero su bianco, cancellando il periodo di vacanza e cura che bambini e ragazzi con disabilità anche molto gravi, impossibilitati per le loro condizioni all’accoglienza in famiglia, trascorrevano al mare con i volontari alla Casa della Gioia di Borghetto Santo Spirito, struttura gestita dalla sottosezione Unitalsi di Monza. Era il 1997 quando Unitalsi decise di impegnarsi per accogliere ogni anno gli ospiti bielorussi in particolare in arrivo dalla zona di Gomel, una delle più contaminate dalla nube che diffuse le radiazioni del 1986. Malformazioni, tumori, disabilità fisiche e cognitive gli effetti più evidenti di quel disastro nucleare. Chi le ha viene per questa sua condizione inserito in quelli che vengono tristemente chiamati internati, gli orfanotrofi bielorussi. Luoghi ancora oggi carichi di quella devastazione provocata dallo scoppio del reattore a Chernobyl in Ucraina, sedici chilometri a sud dal confine con la Bielorussia. Il soggiorno in Italia, tanto atteso e tanto salutare, non sarà possibile neppure quest’anno. «Difficile ipotizzarlo anche per il 2021 – sottolinea Panzeri, referente del progetto “Chernobylsmile”. – I nostri ragazzi arrivavano già a maggio. A quest’ora avevamo visti e permessi. Di questo passo proveremo noi ad andare da loro per il prossimo ottobre». Anche perché da qui è sempre più difficile capire con esattezza le loro attuali condizioni. «Sappiamo che uno di loro è deceduto per Covid. Gli altri li vediamo in video e ogni volta sono senza mascherine, tutti insieme. Anzi, ridono addirittura di noi che le indossiamo. Questo fa pensare che i dispositivi di protezione siano assolutamente inesistenti». Senza considerare tutto il resto. Impossibile, ad esempio, capire se questi ragazzi riceveranno a breve il vaccino. «La speranza è quella di rivederli presto, ma è impossibile avere certezze».